Sgombriamo subito il campo da (in)verosimili equivoci degni dei più radicali e inevitabilmente fanatici puristi della tarda vague nouvelle e dei suoi derivati. Ira Sachs non è Rohmer – e anzi fa volentieri il verso agli intrecci minimali dei Racconti delle quattro stagioni – né Eustache – cui pure dedica uno spassionato omaggio in una scena che ripropone a debita distanza i dialoghi intorno al giradischi di La maman et la putain – e quindi dal suo ultimo film, presentato a gennaio al Sundance, sarebbe inutile pretendere quel french touch che ha permesso ad almeno un paio di generazioni di cineasti d’Oltralpe (è doveroso citare Doillon e Garrel padre, tra gli altri) di restituire densità e delicatezza senza pari alla fenomenologia del discorso d’amoroso, per lo più a partire dai suoi ormai proverbiali frammenti.

A voler trovare a tutti i costi un interlocutore plausibile, per quanto inarrivabile, bisognerebbe rivolgersi al penultimo Resnais, quello delle coincidenze dolciamare di Cuori: perché, al di là del titolo ugualmente plurale, anche Passages si presenta come una variazione, stavolta molto arty e molto poco teatrale, sul tema del film sentimental-erotico ambientato a Parigi, e perciò obbligato a misurarsi con gli stili e gli stereotipi della città e ancor più della filmografia che quella città comporta – in questo il memphisiano Sachs se la cava meglio dell’ultraparigino Audiard, che nel recente Parigi 13Arr. non andava oltre il compitino ammiccante in forma di aggiornamento millennial alla lezione dei suddetti maestri (come d’altra parte era già successo a Klapisch con Parigi quindici anni fa).

Gli ingredienti topici del triangolo parigino ci sono tutti: una coppia di expat omosessuali, il tedesco Tomas (Franz Rogowski, ch’è un piacere ritrovare così nervoso e sfacciato) un regista accattivante e terribilmente narcisista, l’inglese Martin (Ben Whishaw, decisamente troppo trattenuto, persino durante l’amplesso) un tipografo timido e sensibile che vorrebbe essere sapiosessuale ma non ce la fa; Agathe, maestra elementare autoctona tanto confusa quanto travolgente (proprio come la recitazione di Adèle Exarchopoulos); personaggi di contorno alquanto inconsistenti; interni in cui persino il disordine sembra progettato da un designer di grido, e una casa in campagna dove coltivare a vuoto il sogno di una gravidanza a tre.

Una volta scattato l’innesco della seduzione tra Tomas e Agathe, incominciano i “passaggi”: di fluidi anzitutto, di scatoloni e di desideri, da un appartamento all’altro, da un corpo all’altro, tramite un effetto di “legato” (in senso musicale) assicurato da stacchi di montaggio precipitosi e piani sequenza scattanti quanto le corse in bici di Tomas col fiatone. Così le brusche inversioni coloristiche e l’interruzione inaspettata del sonoro nei momenti più convulsi esprimono il senso di un affanno che non è solo erotico ma anche esistenziale.

Il pregio della sceneggiatura di Sachs e del fidato Mauricio Zacharias sta nel presentare un campionario di situazioni amorose fin troppo note e persino banali – le gioie dell’innamoramento, i ricatti della gelosia, la speranza e il vittimismo, il dolore della perdita – secondo uno straniante criterio di ribaltamento ereditato dalla commedia alleniana. Il film, infatti, alterna in continuazione momenti che emozionano chiunque (le prime volte, le feste, le cene tra amici) a momenti che chiunque detesta (i litigi, i tradimenti, gli abbandoni) trattando però spesso i secondi in chiave ludica e i primi con sottile malinconia, anche perché gli uni non potrebbero esistere senza gli altri.

Ci si ritrova così a provare imbarazzo quando normalmente si tenderebbe a empatizzare e riconoscersi nei protagonisti, e insieme a scoprire gli aspetti ridicoli impliciti nella manipolazione e nell’insicurezza che Tomas, cui queste cose sembrano connaturate, costringe gli altri a manifestare. Di conseguenza, si ride molto. Persino al termine dei due drammatici confronti conclusivi, quando è evidente che Martin piange di disperazione ma è pur vero che sta tagliando compulsivamente una cipolla; e poi quando la patetica prostrazione di Tomas di fronte ad Agathe viene interrotta da una parecchio prosaica bidella in animalier.

Per quanto improbabili e a tratti insopportabili siano il benessere e la disinvoltura ostentati dai protagonisti rispetto al costo della vita a Parigi, è davvero difficile rimanere indifferenti alla loro vitalità, che è poi la stessa del ritmo irresoluto e degli squilibri imperterriti esibiti da Sachs in termini registici. La felicità di ciascuno di loro significa l’infelicità di uno degli altri tre, e i “passaggi” – che tendenzialmente corrispondono al bollore sessuale o al raffreddamento reciproco – sono necessari ad assicurare al triangolo una forma di precaria stabilità, fino al punto di rottura finale.

Insomma, non è da tutti riuscire a fare un film basato sul principio dei vasi comunicanti.