La cosa meno riuscita di un film molto riuscito come Blade Runner 2049, il primo faccia a faccia di Denis Villeneuve con il cinema cumulativo, serializzato, pensato per essere saga ad ogni costo prima ancora di essere testo autonomo, era la pretesa di dare l’epica ad una mitologia che in origine non sembrava poterla prevedere. Infatti, se da una parte il capolavoro di Ridley Scott era un modello troppo grande per non essere mantenuto solamente come eco, come lampeggìo dal passato, dall’altra la visualità grezza ed il fascino noir dell’originale entravano in contrasto con la solennità esasperata e col gigantismo produttivo di un secondo capitolo forse troppo consapevole della propria importanza per non evitare di soccombere tanto alla sua eredità quanto alla sua stessa grandezza.

Al contrario, questo cinema di ingegneria dell’enfasi, a prova di mito e di leggenda, che pesa ogni suo gesto e che si osserva sempre dall’alto verso il basso, è perfetto per espletare la storia di Dune, per esaurirne le suggestioni, per avvistarne gli orizzonti e le estensioni, per ripensarne i significati alla luce della direzione in cui è andato il nostro mondo quarant’anni dopo Herbert. Ed è tuttavia un’ostentazione tutt’altro che chiassosa, sulla scorta di quella testosteronica e sbrodolata di Zack Snyder ad esempio, urlata e ribadita con orgoglio ad ogni occasione possibile: Villeneuve, invece, ha sempre ragionato sui rapporti di forza e sulle prospettive di sguardo, ha sempre riflettuto sulle grandezze degli ambienti rispetto a chi li abitava, sulla pericolosità di un mondo non più a misura d’uomo, troppo grande e troppo misterioso perché si riesca ad avere il controllo sulle sue dimensioni e sui suoi spazi, siano essi i grattacieli accosciati sui cieli ocra di Enemy, i quartieri gelidi e le villette senza cancelli nella Pensylvania di Prisoners o, meglio ancora, la frontiera con il Messico e le strade oltre il confine di Sicario, quelle dove gli impiccati vengono appesi ai cavalcavia e dove ogni altra auto lungo il percorso può nascondere un fucile pronto a far fuoco.

Bravissimo a giocare con le scale, a centralizzare le imponenze e i verticismi dello spazio per buttarci dentro l’uomo, con le sue paure e il suo senso d’impotenza, Villeneuve era l’autore giusto per tradurre Dune per il cinema, dopo le ambizioni prometeiche di Jodorowsky, fuori dal suo tempo e probabilmente fuori anche dal nostro, e dopo il fallimento di David Lynch (un adattamento, il suo, frutto di uno stoccaggio mentale troppo intimo della materia originaria, entrata nella sua testa come space opera e uscita come rigurgito del suo stesso genio, come estrinsecazione di una mente senz’altro fuori dal comune ma forse davvero incapace di masticare quel tipo di immaginario).

Il vero limite non era tanto quello di adattare un testo ad altissima densità, dove l’immediatezza del singolo segno nasconde sempre nuovi sviluppi e nuovi scorci, e nemmeno quello di imporsi il principio della riduzione, tagliando pezzi e oltrepassando storie gigantesche, ma piuttosto quello di riesumare un racconto sul quale tanti altri già avevano messo le mani, più o meno indirettamente. Di fatto, Dune è la ragione per cui riconosciamo nella fantascienza delle formule fisse, degli archetipi con i quali tuttavia il cinema ha già fatto i conti, avendone mitizzato ormai da anni le specificità senza comunque aver mai dovuto prendere di petto la matrice di riferimento. Il rischio, insomma, era di fare John Carter, e quindi di fare un film ispirato ad un romanzo capitale al quale, però, avevano già tacitamente guardato tanti altri, non ultimi George Lucas e James Cameron, fin quasi alla saturazione.

E in effetti nella storia di Dune non c’è nulla di inedito, così come non ci sembrano nuovi né i personaggi con le loro motivazioni né l’atmosfera all’interno della quale essi agiscono, eppure la mitologia costruita da Herbert, un mastodontico intarsio di mondi e di culture, di spazi e tradizioni, è sgrovigliata con tale precisione, con un senso tale della profondità e dell’esattezza, che quanto di simile era stato creato in precedenza sembra, guardandolo adesso, soltanto qualcosa di potenziale, di approssimativo. Dietro i sistemi di funzionamento delle tute distillanti e degli scudi, dietro l’iconografia degli Harkonnen e dietro la sacralità ovattata intorno alle Bene Gesserit, dietro gli intrighi politici e le diatribe tra casate, dietro tutto questo Villeneuve sottende i secoli di storia passata che hanno condotto fino a lì: non ce li mostra eppure ce ne fa percepire il peso, come se realmente le vicende fossero vicino al proprio culmine dopo un lunghissimo tempo preparatorio, di allestimento.

Ne è vertice Paul Atreides, il primogenito del duca Leto di Caladan e di Lady Jessica, al quale è riservato un misterioso destino da eletto e verso cui convergono millenni di lotte, ribellioni, profezie, incroci tra linee di sangue. Sulla predestinazione al comando, su quest’onere insostenibile divenuto condanna, che non è stato possibile scegliere ma al quale si è indissolubilmente legati, Villeneuve riflette attraverso il corpo fragilissimo di Timothée Chalamet. In passato, soltanto The King aveva lavorato sull’attore in questa direzione. La brillante riscrittura di David Michôd e Joel Edgerton dell’Enrico V shakespeariano, intersecava le dinamiche della chiamata alla leadership con l'indisposizione dell’uomo chiamato ad assumerla: in quel caso, Chalamet era il figlio ripudiato, la persona meno adatta e meno pronta per essere erede, anche in virtù della sua magrezza e del suo corpo sottile da eterno ragazzino, inquadrato infatti senza vestiti nella scena chiave dell’incoronazione.

Asciutto, debole, affilato e tuttavia capace di sostenere il peso dell’armatura, perfettamente in grado di sguainare spade e di combattere nel fango. Insomma, l’uomo troppo gracile per diventare un leader è l’unico uomo destinato ad esserlo. Villeneuve sfrutta il potere stardom di Chalamet per ottenere lo stesso tipo di risvolto semiotico (non a caso la prima scena che lo riguarda lo coglie a torso nudo) e la sua leggerezza, schiacciata dalle responsabilità della predestinazione e continuamente messa in discussione dal titanismo del contesto, tra astronavi, bombardamenti e vermi giganti, rappresenta la ragione stessa della sua chiamata in causa. In definitiva, Paul è come Arrakis, il pianeta desertico che si contendono le diverse casate dell’Imperium: inospitale, senza difese, feudo di infinite dominazioni ma allo stesso tempo invincibile, futuro dell’universo, rifugio della resistenza che verrà.

Il cuore di Dune, come spesso succede nel cinema di Villeneuve, sta nel conflitto tra differenti statuti di grandezza (intesa in senso visivo e narrativo) e nella possibilità di farli collidere in attesa della sintesi, quella che Paul si prepara a risolvere e quella che il film rimanda ai suoi sequel: nel frattempo, godiamoci il viaggio e, prima di scoprire nuove culture e nuovi conflitti, nascosti nelle grotte di Arrakis, osserviamo il vento alitare sopra la sabbia portandola con sé verso il sole e la spezia mulinare in ampie volute sopra le rocce. D’altronde, è solo l’inizio.