Sarebbe questo, secondo le enciclopedie e i cataloghi, il primo film di Kubrick, disperso perché ritirato dalle sale nel 1953 per volontà del regista, allora ventiquattrenne. E se dovessimo considerarlo invece l’ultimo?

In questi anni praticamente nessuno vede o vedrà Paura e desiderio senza avere in mente almeno uno degli altri titoli della filmografia di Kubrick, tutti ormai patrimonio condiviso dell’immaginario figurativo moderno in quanto icone cinematografiche di cui si conoscono a memoria dialoghi, inquadrature, musiche – con l’eccezione forse de Il bacio dell’assassino (che pure però ha quell’indimenticabile lotta-danza nel deposito di manichini).

Autore di un cinema che ricomincia a ogni film sotto forma di avventura conoscitiva e sensoriale, il nome di Kubrick è associato oggi alla figura del regista inimitabile e inarrivabile per eccellenza, o piuttosto per stereotipo critico. Come esistesse una funzione-Kubrick, limite ultimo dell’arte e dell’industria del cinema occidentale. Felicemente assuefatti come siamo alle sue ingegnerie iniziatiche, sembra impossibile vedere un suo film come fosse “nuovo”, come fosse appunto appena uscito in sala, per ultimo.

La versione di Paura e desiderio presentata a Bologna, reintegrata dei quasi nove minuti tagliati dal regista dopo la prima uscita e restaurata da Kino Lorber, propone invece al pubblico la sfida di vedere Kubrick senza pensare al Kubrick che già c’era, e cercare quindi gli indizi delle sue opere a venire. Lo stesso film, d’altra parte, dichiara sin dall’incipit la necessità di fare tabula rasa di ogni preconcetto legato alla rappresentazione della guerra sul grande schermo.

La voce narrante che interviene nella prima scena (e che non sentiremo più) chiarisce che la guerra in corso è puramente mentale e atemporale, che non esiste distinzione tra protagonisti e nemici, che la foresta inquadrata è un luogo psichico, come avviene nel racconto del soldato di Nel labirinto di Robbe-Grillet. Assume così subito i contorni di un dramma metafisico la vicenda dei quattro soldati che, persi in territorio nemico dopo un atterraggio d’emergenza, cercano di tornare al campo base, non si capisce se fuori o dentro l’isola dove si trova la linea del fronte.

Anche le loro azioni militari di sopravvivenza – la costruzione di una zattera di fortuna, l’assalto a una baracca occupata dagli avversari, il rapimento di una popolana, il piano per uccidere un generale nemico – assomigliano solo ad altrettanti tentativi di rimandare il confronto con la morte, come suggerisce peraltro l’ultima battuta pronunciata dal tenente Corby. Tra sprazzi di montaggio alla Ejzenštejn e primi piani derivati da Corea in fiamme di Fuller, si riflettono poi nelle parole del generale (persino somaticamente) bergmaniano i tormenti del giovane Stanley, e anche – va detto – i tentennamenti stilistici di un cineasta esordiente che all’epoca lavorava da fotografo.

E infatti spesso costruisce i campi medi secondo regole vicine alle geometrie della camera oscura. Ma non mancano i momenti di emozione cinematografica assoluta, come i dettagli degli occhi e delle dita della ragazza legata all’albero, l’esecuzione alla presenza del cane e il finale avvolto dalle nebbie, insieme temute e sognate.

Incarnando le passioni primarie negli sguardi allucinati e nei gesti violenti dei personaggi, Paura e desiderio si presenta come un film spinoziano, non meno che shakespeariano, dove la ragione abita la natura silente e fintamente immobile (il sottobosco tormentato dalle mani di Corby e del soldato semplice Sidney, il fiume dove “scorre” il monologo interiore del sergente Mac) e agli uomini non resta che abbandonarsi agli istinti omicidi e alla sopraffazione sessuale, ma anche ai deliri ispirati al Prospero della Tempesta, alla speranza di un incantesimo di salvezza.

Quest’ultimo primo Kubrick, precoce e postumo allo stesso tempo, vive ancora di tale magia astratta, e pur senza che il suo artefice lo sappia, ha il merito di aver fornito un titolo al più bel libro di cinema pubblicato in Italia a fine secolo scorso. Tanto più che ora il film può tornare in circolazione veramente come una cosa (mai) vista.