“Peccato che sia una canaglia direte anche voi vivendo con Vittorio De Sica, Sophia Loren Marcello Mastroianni questa avventura nella realtà, questa movimentata e divertente storia, questo strano modo di rubare cuori e portafogli, l’ultima fatica di Alessandro Blasetti è un film originale, avvincente, vivace, scoppiettante di schiaffi e di baci che saprà conquistarvi dal principio alla fine”.

Così declamava il trailer di Peccato che sia una canaglia nel 1954 per convincere il pubblico di spettatori, a margine della conclusione dell’esperienza neorealista, a buttarsi nella visione di un film leggero e brillante, ascrivibile nel sottogenere del cosiddetto neorealismo rosa, popolato di temi meno crudi e meno drammatici e condito dalle forme di bellezze nostrane. Bellezze che come Sophia Loren, in questa pellicola per la prima volta protagonista (dopo tanta gavetta come figurante) avrebbero dato il via a una forma di divismo “casereccio” e made in Italy costellato di maggiorate dalla chiara (e fiera) estrazione popolare. .

Per Peccato che sia una canaglia furono gli sceneggiatori Flaiano e Suso Cecchi d’Amico a imporre la presenza della Loren al produttore, suo futuro marito Carlo Ponti, poiché “avrebbero scritto il film solo a patto che lo avesse fatto Sophia”. Ponti non era convinto, diceva “sono anni che gira per Cinecittà e non ha mai combinato nulla”, ma i due sceneggiatori puntarono sulle sue potenzialità. Ed ebbero anche un’altra intuizione molto azzeccata, quella di mettere accanto a Sophia un Mastroianni che faticava ancora a trovare la sua cifra di attore brillante nel mare magnum di un cinema prevalentemente drammatico e neorealista, ma che in questo film riuscì finalmente a far spiccare le sue doti comiche. Merito di certo anche del “terzo uomo” della sceneggiatura, un ladro attempato e impenitente, caratterizzato con grande verve dal talento d’attore di Vittorio De Sica, qui all’apice della sua comicità verbosa ed elegante, una comicità sottile dal sapore di altri tempi.

Tra gag comiche, scazzottate, sinistri stradali, spogliarelli dissimulati, inseguimenti circolari che passano per commissariati simonelliani, più simili a quinte del varietà che a stazioni di polizia, Peccato che sia una canaglia scandisce a colpi di commedia il ritmo di un amore nascente. E soddisfa, nel prolungato bacio finale tra Loren e Mastroianni,  il voyeurismo italico sollecitato per quasi 90 minuti a suon di mossette e ammiccamenti della neo-diva Sophia.

La pellicola si nutre di altri due ingredienti fondamentali che sono la presenza di un tormentone estivo ante-litteram, il Bongo bongo bongo portato al successo da Nilla Pizzi nel 1947 e poi riesumato dal Quartetto Cetra nei primi anni ‘50, canticchiato in modo insistente e ripetitivo dalla protagonista Sophia, capace di dargli uno spessore erotico ipnotico rispetto al suo pubblico. E poi  la parodia degli italici difetti che qui si accanisce contro la categoria dei ladri e mascalzoni “generazione bruciata, non amano il lavoro, non vogliono applicarsi, credono al mercato nero, all’avventura”. 

L’uso attento dei codici della commedia da al film grande vitalità e ne rende la visione vivacemente divertente, aprendo la strada a Sophia come diva popolare, vitale e combattente, alla coppia Loren/Mastroianni come coppia “da sogno” capace di allestire una “spiritosa commedia di caratteri” (Mereghetti) dall'”ammirevole scioltezza narrativa e da un ritmo agilissimo” (Morandini).

Peccato che sia una canaglia conferma anche Blasetti come regista capace di sottolineare particolarmente l'importanza degli sceneggiatori, così come era avvenuto con Zavattini (dal 1942 in poi) e poi divenendo via via una “concezione quasi normativa”, che da qualcuno fu frainteso come un cinema di “confezione” generalizzato, ragione per cui probabilmente, proprio  dalle sue tre commedie Peccato che sia una canaglia (1955), La fortuna di essere donna (1956), Amore e chiacchiere (1957) in poi, l’attenzione critica per questo regista andò un po’ scemando.