Si può dire, sempre che esistano gradazioni nel mito, che il secondo film del Dollaro sia il meno mitizzato dei tre, preso fra uno spartiacque come Per un pugno di dollari, furto a Kurosawa che è quasi furto del fuoco per come cambia il panorama circostante, e quella vetta del cinema popolare tutto che è Il buono, il brutto, il cattivo. Fra ciò che nasce (1964) e ciò che cambia in modo tanto esplosivo (1966) sono paradossalmente i modelli, gli epitomi, gli equilibri stabili che diamo (più) per scontati. È la perfezione del centro.

Non a caso l'enfànt prodige Sam Raimi ne sfiora a più riprese il remake col suo iperbolico summa del genere Pronti a morire (1995). Se troppi calchi (anche visivi) di La sfida del samurai impastoiano ancora il pur esaltante primo capitolo, stavolta Leone ha un film tutto da inventare, e i mezzi tecnici ed espressivi per farlo. È questa euforia giovanilistica a rendere irresistibile Per qualche dollaro in più. Uno stile ancora in boccio trova definitivamente se stesso, ma troppa è la gioia di riuscirci perchè la sua perfezione abbia del consumato. Ogni scena è una scoperta, ogni battuta arriva dal nulla. Raramente si è visto un regista unire i puntini in modo tanto magico.

Non è solo questione di cosa c'è in più, ma di cosa non c'è ancora. Non ci sono gli squarci lirici coi feriti della Guerra di Secessione e Morricone che sogna Via col vento, che in Il buono, il brutto, il cattivo prefigureranno la poetica del Tempo dei tre film più tardi, per adesso implicita nell'appena abbozzata dimensione del ricordo e nella perfetta manipolazione del suspance. "Loro sono come noi" dicono i bambini spiando Eastwood e Van Cleef sfidarsi a chi colpisce da più lontano i cappelli, in una sequenza che forse anche più del Triello è tutto lo spaghetti western-pensiero in un guscio di noce. Lo stupore infantile, il fiato sospeso davanti a una sparatoria di John Ford che dura dieci secondi e sembra siano ore. Che cosa importa al bambino che è in noi della "grande Storia nel suo farsi"?

In Per qualche dollaro in più, le accuse di disimpegno che piovevano sul regista trovano il bersaglio perfetto. È davvero tutto ciò che si diceva di lui (forse non così "amorale" però capiamo); un cinema giocato in cortile, di sguardi storti e pistole finte, ma con che senso di libertà! C'è la struttura triadica (o trinitaria) di Il buono, il brutto, il cattivo e la vendetta finale di C'era una volta il West, ma senza il respiro storico del secondo né l'idea di almeno una trasversalità rispetto alla Storia del primo. La narrazione non entra in dialettiche di sorta, il cinema è motore a se stesso. Ed è uno spettacolo guardare ogni pezzo andare al suo posto, dalla primissima scena in cui Leone dichiara che ci andrà con quel meraviglioso gesto di sfida del "Monco" Eastwood che dà le carte al tavolo del Saloon, alla conta finale dei cadaveri in cui raccoglie - metaforicamente - il frutto di una mano da Maestro.