C'è un momento fondamentale in Piccole donne di Greta Gerwig. In un serrato scambio di battute, Jo March e il suo editore contrattano la percentuale sui guadagni che le sarebbe spettata e l’autrice non cederà fino alla fine, rifiutandosi, inoltre, di cedergli i diritti d’autore. «I want this book to be mine», asserisce. Fondamentale perché congloba non una ma più circostanze sociali e culturali: quella di Louisa May Alcott che dovrà venire incontro a determinate esigenze editoriali (il bisogno, consustanziale all’epoca storica, che la protagonista del romanzo si sposasse, del lieto fine) alla stregua delle difficoltà di tante altre scrittrici che verranno dopo di lei, Colette, Anaïs Nin, (o prima di lei, come le sorelle Brontë che iniziarono pubblicando sotto falso nome). Quel dialogo è insomma un punto di raccordo in cui la vicenda stessa di Gerwig trova una sua ragion d’essere, se contestualizziamo storicamente anche l’opera della regista americana: Hollywood, un mondo per lo più ancora asservito al potere di soli uomini, il femminismo “pop”, per quanto giustissimo, del Me Too.

È bene, quindi, che l’adattamento di Piccole donne di Greta Gerwig ci sia e ci sia specialmente nel discorso culturale contemporaneo e nelle politiche di genere spesso male interpretate o ignorate che lo caratterizzano. Andando però a scandagliarne elementi e struttura, si ha l’impressione di trovarsi davanti a un film che non possiede alcunché di nuovo né innovativo, tanto più se consideriamo il precedente lavoro della regista, Lady Bird, rispetto al quale non vengono fatti particolari passi avanti. Anzi, Lady Bird sembra molto più maturo, veridico e personale, non solo per quanto riguarda la presenza della componente autobiografica, ma anche per la lucidità della scrittura, la caratterizzazione particolareggiata di ogni personaggio e del rapporto madre-figlia, così autenticamente sviscerato e per i richiami a un’idea di cinema - il dire qualcosa di se stessi, a cuore aperto, lasciando scorrere il vissuto dell’immagine anche nel fuori-campo, nel nostro immaginario - che in Piccole donne sembra solo accennare, sfiorare.

In Piccole donne tutto “quadra” e tutto è minutamente cesellato e rifinito ad esempio nell’impianto formale, dalla stratificazione spazio-temporale alla fotografia, la colonna sonora di Desplat onnipresente ed enfatica. Un film di figure fin troppo definite che vive delle implicazioni culturali che lo sostengono e delle splendide prove attoriali ma che manca, se non per qualche parentesi (la morte di Beth, il ritorno del padre delle sorelle), di vitalismo e sentimento nella riproposizione della storia di Louisa May Alcott, come se Gerwig si fosse preoccupata di realizzare unicamente il solo e perfetto lavoro di adattamento, per quanto alla fine risulti inappuntabile. Inappuntabile ma nello stesso tempo freddo e distaccato. E per questo motivo pare non esserci ri-creazione né tanto meno trasfigurazione della materia in un altro (il nostro) universo di significati.