Picnic at Hanging Rock occupa un posto speciale in un’ideale storia della globalizzazione della cultura cinematografica. Come Roma, città aperta (1945), Rashomon (1950) o Il lamento sul sentiero (1955) fa parte della ristretta cerchia di film che hanno segnato un riconoscimento internazionale senza precedenti per le cinematografie dei propri paesi d’origine, contribuendo più in generale a diffonderne all’estero il patrimonio artistico e culturale.

Da questo punto di vista l’eredità di Hanging Rock è stata almeno triplice: fu il caso critico e commerciale che lanciò il cinema australiano nel mondo, tracciando la via per la new wave degli anni Settanta e Ottanta; segnò l’esordio di quello che a tutt’oggi ne resta l’autore più significativo, Peter Weir; e allargò ai paesi non anglofoni la fama dell’opera omonima (1967) da cui era tratto, lo “strano romanzo” in cui Joan Lindsay prendeva d’assalto la rigidità dei costumi vittoriani applicando al mystery la sperimentazione modernista e l’archetipo fiabesco.

Proprio all’ammirevole sforzo di Weir nel restituire in immagini un testo che poteva apparire infilmabile si deve un equivoco fondamentale per le successive fortune del suo esordio: che Picnic at Hanging Rock sia un horror. Alle atmosfere sospese e allucinate (in inglese diremmo eerie) della prosa di Lindsay, il giovane regista arriva coi mezzi puramente filmici che gli mette a disposizione la cultura cinematografica del suo tempo: da un lato l’esistenzialismo “opaco” e l’abbandono della narrazione lineare tipici di un certo modernismo europeo alla Antonioni; dall’altro l’aggressione sensoriale – colonna sonora prog/sinfonica, montaggio forsennato, continue dissolvenze – dell’horror in voga a metà anni Settanta, Dario Argento su tutti. Il risultato è arty e inquietante a sufficienza da aprire al film sia le porte dei circuiti d’essai che quelle del culto di genere, suscitando un boom di turismo intorno alla Hanging Rock e alimentando leggende popolari sulla veridicità dei fatti narrati.

Da un punto di vista autoriale Hanging Rock resta l’espressione più compiuta del primo periodo di Weir, quello in cui la sua concezione del coming of age come metafora di trasformazioni storiche, spirituali e politiche prende la forma di un conflitto fra le due anime del continente australiano: la “moderna” cultura europea/occidentale – il collegio vittoriano, i grattacieli di Sydney in L’ultima onda (1977); e l’eredità arcaica dell’outback, con le sue seduzioni pulsionali, la natura indomabile, lo sciamanismo dionisiaco che emana da lontani tamburi aborigeni.

Nel successivo, straziante Gli anni spezzati (1981) Weir sancirà l’ingresso del paese (e del proprio cinema new waver) nel flusso della Storia occidentale ritualizzando il bagno di sangue della Prima guerra mondiale alla stregua di un’ideale immolazione della sua anima rurale e innocente. In Hanging Rock, ambientato quasi vent’anni prima di quello spartiacque storico, a vincere è invece ancora quest’ultima, la vecchia-giovane Australia che come il Dèmone meridiano inghiotte Miranda e le sue amiche strappandole a un’idea di civiltà repressiva e spersonalizzante.

È in questa chiave politica che Weir si permette gli azzardi maggiori rispetto al romanzo, esplicitandone ancor più i sotto-testi omosessuali e la sfida alle convenzioni sociali che intrappolano le protagoniste. Se l’elaborazione postcoloniale del dramma storico degli Aborigeni resta ancora fuori dal quadro (bisognerà aspettare L’ultima onda), ciò che emerge prepotentemente sono proprio le venature femministe del racconto. A questo proposito può essere interessante collocare Hanging Rock in una costellazione di film contemporanei - da La notte brava del soldato Jonathan (1971) a Suspiria (1977) - che pur da prospettive politiche molto diverse sfruttavano l’ambientazione tradizionalista del collegio femminile per far detonare la forza eversiva della donna “strega” emancipata dalle lotte degli anni Settanta.

Un tema complicato – Antonioni docet – dalla riflessione sull’inerzia e il vuoto esistenziale che si accompagnano al privilegio altoborghese, di cui anni dopo farà tesoro la Coppola di Il giardino delle vergini suicide (1999). Quanto grande cinema doveva nascere da quegli orologi fermi..