Pieces of a Woman, il nuovo film di Kornél Mundruczó disponibile su Netflix, esordisce con una “serie di nuovi inizi”: è settembre, Sean e Martha acquistano un’automobile nuova, Sean lavora alla costruzione di un importante ponte di Boston e Martha è ormai al termine di una gravidanza.
Ragionava in termini simili un film del 2013 di Steven Knight, Locke, nel quale un cantiere e la costruzione delle fondamenta di un edificio venivano accostati alla nascita di un figlio. Se, però, in Locke il protagonista, chiuso in macchina per l’intero film, cercava di avere tutto sotto il proprio controllo, imponendosi delle assunzioni di responsabilità come unica freccia al suo arco, nel preludio del nuovo film del regista ungherese, scritto dall’autrice e moglie Katia Wéber, i due protagonisti si trovano ad affrontare una situazione quasi opposta. Disarmati e impotenti. Dopo aver deciso di far nascere la figlia in casa, il parto non va come previsto e la bambina muore. Da lì, quasi un altro film: arrivano il lutto e le questioni legali che investono tanto la famiglia quanto l’ostetrica responsabile. Nel frattempo i mesi passano e Boston è sempre più fredda, così come tutti i rapporti frammentati e fatti a pezzi che Martha inizia ad avere con l’esterno.
Era inevitabile che il regista ungherese Kornél Mundruczó, prima o poi, girasse un film negli Stati Uniti. D’altronde il suo cinema - a metà tra il kolossal e il film d’autore - ha da sempre fatto dialogare le grammatiche delle produzioni americane con quelle europee. Con Pieces of a Woman, però, spostando il nucleo geografico dall’altra parte dell’oceano, questo “dialogo” si assesta su piani differenti.
Il film è più concentrato sugli attori, su un grande cast – Vanessa Kirby tra tutti (Coppa Volpi all’ultima Mostra del cinema di Venezia), ma anche Shia LaBeouf e Ellen Burstyn – e lo sguardo stesso di Mundruczó gioca “americanamente” con i corpi dei protagonisti (c’è chi ha già chiamato in causa, nel bene o nel male, la Rowlands di Cassavetes), sacrificando, dunque, la tipica spettacolarità “da kolossal” a favore di una regia più contenuta ma non priva di lirismo (si pensi al piano sequenza del parto di 23 minuti) o di protagonismo visivo.
Al tempo stesso, il cinema di Mundruczó continua ad essere anche un cinema che guarda a grandi temi sociali contemporanei, non solo con spettacolarità, ma anche con enfasi retorica ed emotiva, si pensi alla crisi migratoria messa in scena dal rifugiato che vola (Una luna chiamata Europa) o ai cani randagi che si ribellano alla soppressione degli umani (White God – Sinfonia per Hagen). Un cinema che è un’antologia fastosa sulle responsabilità dell’uomo contemporaneo.
C’è però un fatto ambiguo legato al concetto di responsabilità in questo film: le riflessioni etiche e morali sembrano tutt’altro che sviscerate, sono piuttosto messe in secondo piano. Pieces of a Woman è certamente un film sul lutto, sulla maternità, sulla famiglia, sul rapporto tra giustizia legale e giustizia morale, tra responsabilità individuali e collettive, ma allo stesso tempo è un film che – tanto per amor di anti-retorica quanto, forse, per mancanza di coraggio – decide di non prendere delle nette posizioni. Potrebbe risultare un approccio disonesto, spaventato; ma non si può negare che abbia il merito di suggerire un’altra variazione del cinema di Mundruczó, una deviazione rispetto alla tipica tendenza, non sempre calibratissima, di polarizzare i suoi racconti con enfasi retorica ed emotiva.
Il regista, infatti, decide di occuparsi quasi esclusivamente di Martha (Vanessa Kirby), lasciando in controcampo i conflitti etici e morali (anche se riecheggiano da lontano), concentrandosi sulla prospettiva più esperienziale della donna: seguendola, ma rimanendone lontano, perché Martha è un personaggio chiuso, freddo, a pezzi… D’altronde nel film è ricorrente un’inquadratura: un campo medio della donna, visto attraverso una o più porte aperte. Uno sguardo dalla stanza accanto. Perché alla fine il lutto, ci dice il film, così come la fine dei rapporti, è il dramma dell’incomunicabilità nei confronti di ciò che si sente vicino (fisicamente o anche solo olfattivamente) ma lontanissimo allo stesso tempo. È l’essere soli, chiusi in una stanza, ma con una porta sempre aperta al domani.