Pluripremiato nel circuito dei festival europei e nord-americani sia per l’intensa recitazione dell’attore principale, Conrad Mericoffer, che per la talentuosa regia dell’esordiente Eugen Jebeleanu, Poppy Fields (2020) evoca, fin dal titolo, il tema del conflitto e della morte. Il papavero è, infatti, il fiore simbolo del sacrificio dei caduti durante la prima guerra mondiale, associato al trauma bellico fin dalla poesia In Flanders Field (1915) dell’ufficiale canadese John McCrea e ancora oggi, soprattutto nei paesi anglofili, presente nelle parate del ricordo. Pur non essendo un film sulla prima guerra mondiale e svolgendosi claustrofobicamente all’interno di spazi chiusi, mette in scena una serie di conflitti, pubblici e privati, interiori e sociali, che spingono il protagonista verso una condizione di morte affettiva e di sacrificio della propria identità.

Cristi è un poliziotto rumeno che ha iniziato da qualche tempo ad esplorare la propria omosessualità e ad avere rapporti sessuali con uomini, pur non rivelando nulla a colleghi e superiori. In particolare, ha una relazione a distanza con Hadi, francese e mussulmano, che lo viene a trovare proprio all’inizio del film. Cristi non prende, tuttavia, alcun permesso dal lavoro per stare più tempo con il fidanzato e si reca regolarmente al lavoro. Nella notte Cristi dovrà fronteggiare non solo lo scontro tra militanti LGBTQ e cristiani ortodossi che inscenano una manifestazione alla proiezione di un film lesbico, ma anche l’accusa di aggressione ad un militante gay che lo conosce e minaccia di rivelarne il segreto.

Poppy Fields è rigidamente diviso in due atti (visto il carattere teatrale del film), che rispecchiano la rigida linea di demarcazione che il protagonista traccia tra la sua vita privata e la sua parte pubblica e lavorativa. Il  primo si svolge nell’appartamento che Cristi e Hadi divideranno per qualche giorno; il secondo all’interno e nelle vicinanze del cinema occupato, teatro di scontro con quelle sedie rosse sempre più vuote da richiamare la desolazione di un campo di papaveri dopo una battaglia. In entrambe le parti, i movimenti di macchina e le lunghe inquadrature fisse, incollate ai volti dei personaggi, soprattutto quello di Cristi, danno alla narrazione un senso di claustrofobia e di prigionia.

Anche nei toni più da commedia della prima parte, schiacciata comunque dalla lunghezza maggiore della seconda, a Cristi e Hadi non è permesso uscire fuori (allo scoperto?) dall’appartamento fatto di spazi e corridoi piuttosto angusti. Mentre Cristi si impone questa prigionia nel segmento iniziale del film, nel corso dell’intervento della sua squadra al cinema saranno i suoi superiori ad imporgli una forma di prigionia ed isolamento all’interno della sala cinematografica deserta, dopo che il poliziotto ha colpito un militante LGBTQ. In questo isolamento, i colleghi si alternano a sorvegliarlo e a raccontargli, paradossalmente visto che Cristi non apre bocca sull’argomento, le loro esperienze omosessuali e la loro conseguente omofobia.

Pur così rigidamente separate per luoghi e personaggi, le due linee narrative hanno due punti di incontro. Vedendo le azioni repressive della polizia rumena e la costrizione a cui l’omofobia istituzionalizzata e interiorizzata riduce Cristi, non si può non pensare durante la seconda parte al racconto che il poliziotto fa ad Hadi della prigionia della nonna durante il regime comunista. Il governo è cambiato, è diventato pure democratico, ma la repressione per chi la pensa diversamente è sempre una sua caratteristica. L’altro punto di incontro, ancora più esplicito, è la telefonata tra Hadi e Cristi al termine del turno notturno, un irrompere del privato e dell’altro (anche linguisticamente in quanto i due comunicano in inglese) nella vita pubblica che denuncia l’innaturalità di tenere separate le due sfere.