Presentato in anteprima allo scorso Torino Film Festival, San Donato Beach è il terzo lungometraggio del regista Fabio Donatini. Un’opera strettamente legata all’indole emotiva del suo autore, in grado certamente di esprimere i propri contenuti in piena autonomia, ma che acquista senz’altro un valore aggiunto se irrorata dall’esperienza personale di chi lo ha concepito e creato. Ecco quindi la testimonianza del regista riguardo alla sua opera ed alle necessità e gli stimoli che lo hanno spinto alla realizzazione di questo lavoro.

Iniziamo con quella che è una domanda canonica, ma che in questo caso appare particolarmente calzante. Come nasce l’esigenza di girare un film come San Donato Beach?

Il film ha origine qualche anno fa in un periodo non facile per me. Avevo realizzato il mio film precedente nel 2011 e poi avevo avuto un periodo di depressione. Non che non scrivessi o fossi completamente bloccato: andavo a Bottega Finzioni e lavoravo la terra di mio padre, come ho sempre fatto. Però uscivo poco, poi avevo iniziato a girare un corto che mi era stato commissionato ma non lo avevo terminato. In seguito non so esattamente cosa sia cambiato, ma ho ri-incontrato Nicola Spaccucci, che sarebbe poi stato il montatore di San Donato Beach facendo un grandissimo lavoro, e Antonello Grassi (co-autore del soggetto), mio collega a Bottega. Raccontai del mio stato d’animo, del fatto di uscire raramente, ma anche che in quelle occasioni mi capitava di incontrare delle persone interessanti. Soprattutto in estate mi rendevo conto di vedere sempre gli stessi volti, qui in San Donato. La stessa solitudine che provavo io in camera la ritrovavo anche in loro, magari più esposta. E quindi nell’estate del 2018 ho deciso di filmare quella realtà, facendo le riprese e prendendo l’audio personalmente. Mi sembrava così bello San Donato in estate, così deserto e simile alla mia anima e quello che vivevo io. Poi il resto è venuto da sé, il cinema ha la capacità di prenderti e riportarti in carreggiata. Credo che il cinema mi abbia insegnato a vivere più di mio padre e di mia madre, da un certo punto di vista. Quindi è come se queste strade e queste case abbiano espresso la loro volontà di essere riprese, per essere trasformate in un ragionamento sulla solitudine. All’inizio non è stato facile, soprattutto per il fatto di uscire di casa e coinvolgere le altre persone. In questo mi è stata molto utile la musica. Io parto sempre dalla musica, specialmente degli anni Sessanta e Settanta, e ascoltando le canzoni riuscivo a figurarmi quello che poi avrei girato. Questo mi dava coraggio e mi dava un senso in quel periodo di grande sfiducia nei miei mezzi. E allora ho iniziato ad incontrare le persone dell’isolato, che sembrano scelte, ma in realtà sono semplici abitanti che vivevano la solitudine in modi diversi. Io, dopo avere ritrovato un certo entusiasmo, le ho riprese con impeto. Solo in un secondo momento e grazie all’aiuto di Nicola e Antonello, sono riuscito a dare un ordine a quel caos. Questo è il modo in cui è nato questo film, da un disagio personale. Io ho sempre vissuto il cinema con un senso autobiografico molto forte. Non c’è niente di quello che ho realizzato, anche a livello di spot pubblicitari, che non abbia al suo interno un po’ di disperazione e speranza derivanti dalla mia esperienza personale. Lo faranno tutti, ma a me sembra di farlo sempre in maniera molto invasiva e questo causa anche lo scarso successo di alcuni progetti.

A proposito delle persone che vediamo nel film. Ci puoi dire qualcosa di più rispetto al modo in cui sei arrivato a selezionare queste storie in particolare?

Allora, come ho già detto era un’estate del 2018. Alcuni giorni mi svegliavo molto tardi e vagavo per il quartiere deserto. Mi fermavo nei bar a fumare una sigaretta o a prendere un caffè e piano piano ho conosciuto questo mondo. Le persone che troviamo nel film sono quelle che dal mio punto di vista avevano un appeal particolare. Però, mentre parlavo ad esempio con Patrizia, sentivo raccontate delle cose che non mi sarei aspettato, lo stesso vale anche per Zio, il signore zingaro. Non mi aspettavo tanta freschezza e tanta ironia. Li vedevo tutti i giorni e per me era normale parlare con loro. Io lo so che Zio parla sempre di tette, ma quando lo riprendo e lo mostro ad altre persone acquista un aspetto diverso e diventa interessante. Risultano interessanti per me e di conseguenza credo che lo siano anche per lo spettatore, o per il “me spettatore”, perché poi anch’io li guardo in quel modo quando li riprendo. Le persone che per me avevano più appeal erano quelle che non stavano bene, è chiaro, perché non stavo bene io e quindi mi trovavo bene con persone che condividevano il mio stato d’animo. Se c’è inquietudine io cerco inquietudine. Se poi la trasformo con le canzoni in leggerezza è un altro discorso, ma se non sono sporchi, non mi raccontano la loro vita e io non sono interessato a loro non lo sarà nemmeno lo spettatore. Mi rendo conto che sia un modo un po’ estremo; quello di trovare prima le persone e scrivere dopo. Io però non ce la faccio a lavorare diversamente.

Questo approccio è qualcosa che emerge in modo evidente dal film, nel quale si nota in maniera abbastanza palese il rapporto tra un quartiere di Bologna che nel caldo estivo si svuota e la condizione dei personaggi che lo abitano. Credo sia un grande ritratto della solitudine e vorrei sapere se questa fosse la tua intenzione sin dall’inizio.

Sì, sai cosa? È che le logline e le cose che insegnano le scuole di scrittura servono, e quando io giravo e incontravo queste persone sicuramente avevo in testa la domanda sulla solitudine e sapevo che sarei andato a parare lì. Ma era un tema implicito per me e non mi serviva rapportarmi a loro specificando che la mia era un’indagine sulla solitudine. Lo sapevo io e lo sapeva Antonello, parlavamo solo di quello… Poi magari mi sbaglio, ma se passeggi per un mese in un posto e vedi sempre le stesse quattro o cinque persone, gli stessi tre cani, le stesse macchine e poi inizi a riprendere queste cose il film lo hai già fatto quando passeggi. Io, insieme a Nicola ed Antonello, perché nel cinema grazie a Dio non si fa nulla da soli, il film me lo ero fatto passeggiando. Le riprese poi sono anche un momento di improvvisazione, perché la base è già stata gettata prima andando in quel parco, piuttosto che in quella zona abbandonata parlando con quell’eroiaomane. Quella per me è stata quella che per altri è la sceneggiatura. Non è un approccio pasoliniano, non c’è questo amore per il mondo o per il realismo. È chiaro che in me c’è anche un atteggiamento egoista che mi porta a mettere in queste persone il mio vissuto. Però cerco di fare questo in maniera educata.

Tra le persone che hai incontrato, c’è qualcuno in cui ti sei rispecchiato particolarmente o su cui sei riuscito a riversare il tuo stato emotivo più che rispetto agli altri?

Andrea. Andrea, perché usciva da una storia d’amore viscerale come capitava a me. Poi aveva questa fissazione, come me, di entrare nei bar ed accorgersi della musica che passava e tramite quella musica evocare ricordi. Ad esempio, se c’era una canzone di Mina a lui ricordava quando da piccolo viaggiava con suo padre in macchina, ma soprattutto entrava in una situazione fuori dal tempo, come se l’universo diventasse in technicolor e si trasformasse in un musicarello. Penso che tutti abbiamo alcuni momenti della nostra vita che abbiniamo a dei generi, un’ora è horror e magari quella dopo è western e quella dopo ancora è commedia romantica. Questa era una cosa molto gradevole perché, pur essendo un po’ kitsch, il musicarello è un genere onesto, umano, diretto e fu anche molto utile a sua tempo per alcune case di produzione, per potersi permettere di fare i film di Fellini, Leone ecc… Io mi sono laureato sul musicarello. Quindi entrare nel musicarello un sabato pomeriggio in una San Donato deserta era meglio che entrare con un pezzo hardcore in un horror ambientato sotto il sole e dove hai paura che in ogni angolo ci sia qualcuno che ti spaventi. Insomma, noi entravamo in una sorta di western malinconico con la colonna sonora di Japino. Tra l’altro Andrea dopo questo film ha continuato a recitare ed ha accettato di partecipare anche nel mio prossimo film, che sarà un mockumentary ambientato durante il primo lockdown. Io non credo nel cinema come arte terapeutica, ma credo che a lui tutto sommato abbia fatto bene questa esperienza. All’inizio era molto timido e faticava a rivedersi, ma in seguito ha scelto di fare un corso di recitazione. E questo lo aiuta e gli permette di avere più cose a cui pensare.

Ci sono state altre reazioni di questo tipo da parte dei tuoi protagonisti?

Sì, le reazioni sono state diverse. Armando, per esempio, aveva paura di suo padre e dei suoi figli per alcune cose che aveva detto. Ci era rimasto anche un po’ male perché secondo lui non ero stato onesto e quindi ho dovuto tagliare delle parti. Ma queste sono persone che tutt’ora vedo e con cui parlo, quindi alla fine si è arrivati ad un compromesso. Credo sia un po’ diverso dalla concezione di film e anche di documentario standard, ma io non so fare diversamente.

Ricollegandoci ad una tua affermazione precedente, sulla natura collettiva della realizzazione di un film, qual è stato l’apporto degli autori che ti hanno affiancato e come siete arrivati alla composizione finale di queste testimonianze?

Questo è un aspetto a cui tengo molto. Soffrendo di attacchi d’ansia per me è molto utile uscire di casa e girare. L’ansia ha dei pro e dei contro. Il contro è che non stai bene, il pro è che se questa ti macina ti spinge anche a macinare il mondo e a conoscerlo meglio. E lo conosci sottovalutando tutto quello che è lo storytelling, ottenendo del materiale che è sì basato su un’isotopia di fondo: la solitudine, l’estate e la combinazione tra immagini e musiche specifiche, ma che poi va oltre. Nicola Spaccucci, con calma, partendo da strutture che avevo io in testa, ha avuto delle buone idee e la pazienza di vedere qualcosa che era il frutto di due anni di girato e di prendere quello che secondo lui e Antonello erano le cose da proporre a un pubblico. Seguo sempre anche io questa fase, ma è difficile avere la lucidità adeguata. Per fortuna il cinema si fa in tanti, se montassi da solo non sempre sceglierei le parti giuste. Nicola ha conosciuto i personaggi molto meglio di quanto possa fare una persona che scrive, perché aveva materiale di persone vere prese in un momento di difficoltà o in momenti di speranza. Lui e Antonello hanno creato uno scheletro che per me era molto sottile, quasi invisibile. Avevo in mente delle simmetrie che ho proposto a Nicola, come alcuni momenti lenti con il rumore dei grilli e le immagini dei palazzi degli anni Cinquanta abbinati ad una particolare canzone, per creare questo mondo parallelo. Una piccola distopia anche se è un documentario. Nicola ha avuto delle trovate molto intelligenti, quasi sperimentali, come quella di bloccare la musica all'improvviso, creando questi coiti interrotti che in queste scena hanno un effetto molto gratificante per me e spero anche per gli spettatori. Questi stacchi permettono di passare da un momento di sollievo immediatamente a quello che è la realtà. Finisce il sogno del mondo musicale, San Donato come paradiso di sofferenza ma pur sempre paradiso, e torni alla realtà, ovvero un quartiere come tutti gli altri ma con un sacco di grilli durante l’estate, in cui le strade sono vuote. Il fatto che la musica si interrompa improvvisamente, senza soluzione e in maniera anche abbastanza cattiva, credo sia una trovata semplicissima ma bellissima. Antonello invece insisteva molto sul rendere l’idea di gruppo e di fare quindi dialogare questi personaggi tra loro e soprattutto di chiedere a ciascuno di loro come avrebbero voluto finisse la loro storia all’interno del film. vuoi che finisca come è iniziato? Vuoi tornare a Teheran? Vuoi che raccontiamo questa parte in cui hai dato via la casa e devi andare a dormire da Padre Marella? Questi spunti sono merito suo.
La solitudine ce la metto io, ma per tirare le fila ci vuole poi un po’ di disciplina narratologica, non troppo invasiva perché poi dici le bugie e non è bene, però un pochino sì. Quindi credo che Nicola monterà anche i miei prossimi lavori e ritroverò anche Antonello. Ci gratifichiamo a vicenda. Loro sono contenti che io vada fuori a fare idiozie, un po’ tipo poliziotto infiltrato e a mescolare reale a distopie low budget, e hanno il terrore di vedere il girato ma poi sono felici perché sanno che ne uscirà qualcosa che ci darà soddisfazione.

Come ultima domanda ti chiedo quale sarà il percorso di questo film nel prossimo futuro.

Sarò onesto: non lo so esattamente. Sono contento perché mi dicono cha a Torino è piaciuto e perché gente che non conoscevo mi stimola ad andare avanti. Mi fa piacere che abbia vinto il premio come miglior documentario sperimentale ai Rome Film Awards , anche perché molto spesso non si sa che cosa significhi questo termine, che però è figo. Quindi ora possa andare al bar e dire ai ragazzi “abbiamo vinto come miglior documentario sperimentale!” e poi ci beviamo un caffè. A maggio andrà al festival di Ferrara e sono contento perché mi dicono che sarà in presenza e finalmente avrò la possibilità di avere un contatto diretto con il pubblico e magari, non so, si mangerà qualcosa insieme. Inoltre abbiamo appena finito di fare i sottotitoli e speriamo di mandarlo ad un festival internazionale. Se devo essere onesto però spero solo che tutte queste cose ci aiutino solo a darci coraggio per trovare la voglia di fare un altro film. Perché non è così semplice e quindi mi fanno piacere i festival e i premi. Per quanto riguarda la distribuzione, invece, non abbiamo ancora dei piani precisi al momento.