Se lo si è visto anche una volta soltanto, non si dimentica il volto di Charles Boyer: in Angoscia di Cukor o Fra le tue braccia di Lubitsch o I gioielli di Madame de… di Ophüls, sempre fascinoso e costrittivo, improvvisamente inquietante quando più dovrebbe sembrare dolce. Un volto senza via di scampo.

Perciò lo si riconosce subito nei primi fotogrammi di Profundo Carmesí, il film di Arturo Ripstein del 1996 presentato a Venezia Classici dopo il restauro e la reintegrazione di 24 minuti mancanti perché censurati nella prima versione. La faccia dell’attore francese compare sullo schermo prima ancora che si capisca che la macchina da presa si trova di fronte a uno specchio, incrinato giusto nel punto in cui si riflette una donna sovrappeso impegnata nella lettura di un romanzo rosa. Sulle pareti della camera da letto foto di Boyer nelle più diverse pose e cornici.

Un unico, avvolgente movimento di macchina attraversa la stanza e si avvicina a un altro specchio davanti al quale la donna si scrive le iniziali di Boyer sul seno con una matita da occhi mentre ne pronuncia sottovoce il nome, quindi si pettina le punte dei capelli. Nell’ultima inquadratura, accompagnata dal medesimo struggente tema musicale, la stessa donna si specchia in una pozza color cremisi – il riflesso in questo caso ondulato dal vento sull’acqua – di fianco a un uomo che assomiglia vagamente a Charles Boyer e in testa porta un parrucchino fatto proprio delle ciocche che lei accarezzava all’inizio. La macchina da presa, stavolta, si allontana.

L’uomo e la donna sono Coral Fabre e Nicolas Estrella, uniti nel Messico del 1949 da una passione fatale e repellente nata dall’inganno e fondata sul culto reciproco delle rispettive mostruosità, ma non per questo meno languida e toccante. Dopo aver risposto a un suo annuncio pubblicato sulle pagine dei cuori solitari, l’infermiera Coral, giunonica sognatrice con l’alitosi, passa la notte col bellimbusto stempiato Nicolas, che si finge un capelluto gentleman spagnolo per sedurre e derubare donne indifese. Lei decide che nulla potrà più separarli e così, una volta scoperto che lui ha ucciso la moglie per intascarne l’eredità, abbandona i figli in orfanotrofio per aiutarlo a imbrogliare ricche vedove in giro per il paese. Ma la gelosia violenta e la vanità esasperata li condurranno presto sulla via del crimine seriale.

Ispirandosi ai terrificanti delitti perpetrati da una coppia di amanti negli Stati Uniti alla fine degli anni Quaranta (già alla base di The Honeymoon Killers di Leonard Kastle), Ripstein costruisce il film come un ibrido sanguigno di classici americani e generi della cinematografia messicana di metà secolo, sostenuto da un umorismo nerissimo tipicamente ispanofono: la parodia del lovers-on-the-run non si distingue dai prestiti dal melodramma popolare, mentre le venature da thriller notturno si adeguano alla lezione satirica di Luis García Berlanga. La sceneggiatura di Paz Alicia Garciadiego tiene insieme alla perfezione tutti questi registri, rendendo i dialoghi tra Regina Orozco e Daniel Giménez Cacho, già impreziositi dalla loro recitazione perfidamente grottesca, tanto divertenti quanto atroci sono le azioni dei loro personaggi.

Ma c’è di più, perché l’andatura sinuosa dei piani sequenza di Ripstein, che non li mostra mai separati nel campo/controcampo, sancisce quanto sia inevitabile la complicità di due esseri resi inseparabili dalle loro anomalie fisiche, dalla loro sproporzione immorale rispetto al mondo: Coral col suo corpo rubensiano, l’alito pestilenziale e una certa propensione all’omicidio, Nicolas per l’alopecia, le emicranie paranoiche e l’urgenza della falsificazione, destinati a un tipo di amore assoluto che, pur nella sua deformità, chiunque segretamente desidera. Un amore senza via di scampo.

Nelle corrispondenze tra le due sequenze descritte in precedenza, d’altra parte, c’è tutto il senso di Profundo Carmesí, ancora più di questo director’s cut: la bellezza illusoria e irraggiungibile, a suo modo diabolica (come il volto di Boyer), del cinema, vanamente (il trucco, le protesi) e quindi tragicamente inseguita dalla realtà sgradevole, feroce, squallida suggerita dalle stanze ingombre con le pareti muffite in cui si svolge quasi tutto il film – una realtà anche ridicola e ipocrita i cui presunti valori (la famiglia, la religione, il lavoro) non sono meno illusori e simulati di quelli propugnati dai giornaletti o dai fotoromanzi su cui la protagonista coltiva il suo desertico bovarismo.

Una realtà senza via di scampo.