Queer, ultimo film di Luca Guadagnino tratto dal romanzo omonimo di William S. Burroughs, è il fantasma del desiderio che dopo aver vagato per le piazze deserte di un paesino del Nord Italia, i paesaggi rurali e violenti del Midwest e i patinati campi da tennis decide di affrontare sé stesso. E lo fa sfuggendo definitivamente dal corpo, separandosi dalla carne e diventando un ectoplasma inafferrabile, una presenza infestante e ossessiva e allo stesso tempo intangibile e impossibile da governare. "I am not queer, I am disembodied", ovvero "non sono queer, sono disincarnato": è il mantra con cui Lee, il protagonista di Queer interpretato da Daniel Craig, naviga la sua psiche frammentata e intorpidita, muovendosi tra sogni, incubi e illusioni che si fanno realtà.
Il personaggio di Lee, un americano a Città del Messico, in un certo senso è egli stesso un fantasma: vaga senza meta tra le strade della città, passando le giornate al bar tra conversazioni estenuanti, futile esercizi di sesso e la dipendenza dall’eroina, legato al suo corpo dal filo sottile e ingarbugliato di un desiderio smanioso e pervasivo intriso di dolori mal sopiti e assenze incolmabili. Un personaggio squallido e malinconico, un uomo che si trascina con indolenza verso la sua disintegrazione: parte di questo processo è Gene Allerton, un giovane sfuggente e dall’aria indifferente che diventa l’oggetto dell’ossessione amorosa di Lee.
Anche Allerton è una sorta di spettro nel suo essere oggetto del desiderio irraggiungibile: «Ciò che Lee sta cercando è il contatto, nel senso di riconoscimento, come un fotone che emerge dalla nebbia dell’incorporeo per lasciare una traccia indelebile nella coscienza di Allerton. Non riuscendo a trovare un osservatore adeguato, Lee rischia una dolorosa dispersione, come un fotone sfuggito all’osservazione», scrive Burroughs nella sua Introduzione a Queer.
Spettri che cercano di tornare ai loro corpi attraverso il sesso, attraverso la ricerca di un contatto profondo e assoluto, di una forma di telepatia in grado di annullare la separazione e la distanza tra due persone attraverso una comprensione immediata dell’altro. Questa sensibilità telepatica può essere innescata dalla yaga, una pianta che cresce nella foresta amazzonica: Lee prova una fascinazione morbosa verso le presunte proprietà di questa droga, nella quale spera di trovare l’antidoto al suo desiderio dolente, quel calore e quella connessione immediata e reciproca che Allerton continua a negargli.
Nel cinema di Guadagnino il desiderio è una forza carnale, indissolubilmente legata alla realtà dei corpi, una visione esplicitata attraverso la messa in scena e la ripresa di una corporeità materiale e vitale, a volte così viscerale e famelica da sconfinare nell’orrorifico, come in Bones and All o Suspiria. In Queer, nonostante la presenza di scene di sesso in cui la realtà del corpo rimane centrale, il desiderio prende strade più metafisiche. Se è vero che il desiderio può sussistere solo nell’assenza dell’oggetto desiderato e nell’attesa stessa del suo soddisfacimento, Queer è l’apoteosi del discorso sul desiderio di Guadagnino, l’opera in cui il concetto di desiderio come mancanza giunge al parossismo.
Negli incontri sessuali con Allerton Lee vive immerso in un desiderio perennemente frustrato, e per questo sempre più intenso, così intenso da diventare dolore: il giovane si concede a lui, ma rimane inaccessibile e distante, senza mai appartenergli veramente. Il desiderio non prende mai corpo, ma continua a tormentare la carne, a dilaniarla: e nel vuoto della sua solitudine, quando non rimane più nulla da consumare, Lee rimane faccia a faccia con lo spettro del suo desiderio, ancora più intenso, ancora più affamato. E nell’impossibilità di soddisfarlo soccombe alla sua voracità mortifera, si fa assorbire e si riconosce «disincarnato».
Queer è un racconto semi-autobiografico, e in quella parzialità si annida l’essenza stessa di un’opera artificiale e intima al tempo stesso, che nel disperato tentativo di usare la finzione per evitare la realtà finisce per diventarne uno specchio feroce e impietoso. Lee è la maschera di Burroughs, che con tutti i suoi eccessi, le sue ossessioni e dipendenze cela qualcosa di ancora più intollerabile della sua diversità, di quella queerness che lo relega ai margini della società.
Al tempo stesso Lee è Burroughs che attraverso la scrittura va dritto verso ciò da cui scappava: il dolore e il senso di colpa per la morte della moglie Joan. Guadagnino nel suo Queer porta a galla a livello delle immagini tutte queste stratificazioni di simboli e di significati: il suo Lee si aggira in una Città del Messico ricostruita a Cinecittà che non nasconde la sua natura di palcoscenico onirico, dove dietro le porte degli squallidi hotel a ore e dei locali clandestini dove si rifugiano gli espatriati/esiliati statunitensi, le paure e i fantasmi del passato prendono corpo sotto forma di scene surreali ed enigmatiche, che si presentano all’occhio dello spettatore senza svelarsi.
Una donna nuda, una bottiglia in equilibrio, il rumore di un colpo di pistola: Burroughs si fonde con Lee, una fusione esplicitata a livello filmico da Guadagnino e confessata dallo stesso scrittore nella sua Introduzione quando, continuando a parlare del rapporto tra Lee e Allerton fa un parallelismo con l’atto della scrittura: «Lee non sa di essere ormai votato alla scrittura, poiché questo è l’unico modo che ha di lasciare una traccia indelebile, indipendentemente dal fatto che Allerton abbia voglia di stare a guardare oppure no. Lee viene spinto inesorabilmente nel mondo della finzione narrativa. Ha già scelto tra vita e scrittura».
Guadagnino rimane fedele quasi del tutto al romanzo di Burroughs, seguendo con scrupolo le traiettorie seguite da Lee tra le pagine, dalla vita dissoluta a Città del Messico fino al viaggio in Sudamerica con Allerton, tra visioni febbrili e crisi di astinenza che prostrano il corpo già segnato dal fardello del desiderio frustrato. Poi decide di inserire un’interpolazione, di colmare il vuoto lasciato dal romanzo proseguendo la ricerca dello yage nella giungla. Nel capitolo più surreale e allucinatorio del film, il desiderio di Lee prende corpo, anche se solo nei fumi dello yage: i corpi dei due viaggiatori si fondono in una danza arcaica e istintuale, in una forma di erotismo puro, svincolato dalla realtà, che unisce i corpi e li trasfigura.
È il punto di non ritorno: il corpo perde coscienza di sé e finalmente diventa puro desiderio, materia spettrale, disincarnata.