Europa, 1995. A metà anni Novanta, in poco più di due giorni, si consuma il più grave e feroce massacro a partire dal secondo conflitto mondiale. Nel pieno della guerra in Bosnia ed Erzegovina, gli abitanti della città di Srebrenica formata da bosgnacchi musulmani vengono evacuati in seguito alla rapida invasione della Repubblica Srpska. L’ONU, incaricato di proteggere e mettere in salvo donne, uomini e bambini, scorta l’intera popolazione nel complesso/rifugio di Potočari. Chi riesce fugge nei boschi circostanti. Ottomila persone vengono stipate in un perimetro di metallo rovente, le restanti quindicimila rimangono fuori senza un riparo, cibo o acqua. La situazione degenera sempre di più: i serbi entrano a Potočari senza incontrare alcuna resistenza; gli uomini vengono separati dalle donne e dai bambini per essere uccisi a sangue freddo e gettati in fosse comuni.

Jasmila Zbanić (Orso d’Oro 2006 per Grbavica - Il Segreto di Esma) circoscrive la tragedia del massacro subito da molti, dal suo popolo, centrando il proprio sguardo su Aida (Jasna Duričić) che nel film è tre cose, madre, moglie e traduttrice ufficiale del battaglione olandese delle Nazioni Unite. Aida è una privilegiata, è già al sicuro, “è nella lista”, le dicono. Eppure Aida, man mano che il pericolo diventa sempre più imminente, si vede costretta a prendere decisioni rapide, talvolta anche folli, per salvare la sua famiglia che si trova da qualche parte là fuori.

In questo senso il dove vai del titolo Quo vadisAida? suona più come un “cosa fai?”, “che intenzioni hai?”. Ci pensa la camera a spalla a rivelarci come le sue decisioni siano imposte dal suo puro istinto di sopravvivenza, pedinandola, facendosi largo tra i gorghi di braccia e gambe di esseri umani che sono diventati più simili ad animali da macello. Il dinamismo incessante di Aida ben si accompagna all’atmosfera di angoscia e incertezza che si respira a Potočari.

La regia di Zbanić racconta le ore interminabili della prigionia e del massacro tramite il silenzio complice di chi aveva il dovere di intervenire e di colui che ha costruito una realtà fatta a sua misura e secondo fini di vendetta personale. Il responsabile, il generale serbo Ratko Mladić, confeziona un perfetto reality-show a puntate da mostrare al mondo (è sempre accompagnato da un cameraman), si fa filmare durante la negoziazione fasulla con l’ONU, registra il suo trionfo in mezzo alle case fatte a pezzi, inquadra le sue future vittime inscenando delle finte interviste fino allo spettacolo finale, l’eccidio silenzioso di centinaia di uomini all’interno, non a caso, di un cinema vuoto.

Zbanić affronta anche un punto molto dibattuto della vicenda e cioè la presenza di giovanissimi caschi blu gettati in pasto a una guerra che non erano assolutamente in grado di affrontare psicologicamente. Davanti alle atrocità irripetibili compiute dai serbi, lo sguardo vacuo dei giovani soldati è un’ulteriore denuncia alla vigliaccheria e alla burocrazia fallace che hanno portato all’impensabile.

L’incubo senza fine di Aida, concretizzato nella perdita della sua famiglia, esplode con l’urlo soffocato nella sequenza del riconoscimento di ciò che resta del figlio più piccolo. Aida ferma il suo moto perpetuo di sopravvivenza e ricerca della verità; si arresta anche la camera che fotografa l’ultima fase del dramma di una madre e di una moglie, culminante nel grido finale di denuncia verso i responsabili e chi ne è uscito impunito.