In un cinema italiano che si avviava ormai verso la decadenza, Quo Vadis? (1924) di Georg Jacoby e Gabriellino D’Annunzio rappresenta uno degli ultimi tentativi dell’industria nostrana di rientrare nel circuito del cinema internazionale. Per fare questo la UCI per tramite di Arturo Ambrosio si getta a capofitto in una produzione spettacolare che richiama artisti internazionali e non bada a spese. Nel ruolo di Nerone troviamo il mitico Emil Jannings, come Licia Lilian Hall-Davis, nei panni di Petronio André Habay e poi Elena Sangro come Poppea e Bruto Castellani di nuovo nei panni di Ursus dopo il celebre adattamento italiano del 1913 (con regia di Enrico Guazzoni).

A fronte di una cifra spesa incredibile per l’epoca, il film non ebbe in realtà il successo sperato sia a livello mondiale che a livello nazionale. Le ragioni su quest’ultimo sono almeno duplici: da una parte si stava assistendo ad un periodo di stanca rispetto al genere e una disaffezione verso il cinema italiano in generale, dall’altro la rappresentazione di una Roma distrutta dai vizi, mal si conciliava con l’ideale che il fascismo cercava di instaurare.

La vicenda di Quo Vadis?, sia grazie al celebre romanzo di Henryk Sienkiewicz da cui è tratto sia per l’ancor più famoso adattamento di Mervyn LeRoy del 1951 è nota a tutti e si concentra sull’ultimo periodo dell’impero di un Nerone ormai distrutto dai vizi che arriva addirittura a incendiare Roma dando poi la colpa ai cristiani. In questo ambito si inserisce la storia d’amore tra il romano Marco Vicinio e Licia, una ragazza cristiana.

Il Nerone di Jannings è decisamente sopra le righe, estremamente satanico, quasi a ricordare l’interpretazione di Mefisto nel successivo Faust (1926) di Murnau. Cattivo, dedito all’alcol, quasi incapace di intendere e di volere, questo Nerone si rivela privo di forza e forse è l’elemento debole di tutta la narrazione. Per il resto il Quo Vadis? della coppia Jacoby-D’Annunzio ha il pregio di aver superato bene la prova del tempo sia a livello narrativo che visivo.

Rispetto alla già citata versione del 1913, infatti, questa trasposizione ha un taglio decisamente moderno e più vicino al gusto contemporaneo, dove è estremamente limitato quel gioco di piani interni all’inquadratura, tipico del primo peplum italiano, in cui si cerca di non segmentare lo spazio scenico a favore di un montaggio decisamente più vicino al gusto internazionale. Non per questo mancano le grandi scene di massa e alcune scene ad inquadratura lunga che permettono di esaltare le attrazioni visive.

Dopo la visione rimangono impresse le scene dei grandi banchetti ma anche quelle delle persecuzioni dei cristiani nell’arena, tra persone sbranate dai leoni, corse delle bighe con persone legate e trascinate a terra senza dimenticare il celebre combattimento a mani nude tra Ursus e un toro. Non manca una componente erotica piuttosto marcata usata per dare un ulteriore contraltare drammatico alla depravazione dei romani sotto Nerone e alla rettitudine dei cristiani.

Colpiscono inoltre le scenografie, progettate da Armando Brasini e che vennero in parte utilizzate a Villa Borghese per ospitare la Mostra dell’agricoltura, dell’industria e delle arti applicate e in parte costruite appositamente e poi smontate con un dispendio di risorse sintomo di un’industria cinematografica ancora troppo poco attenta alle spese.

Quo Vadis?, come detto, non ebbe particolare successo e anche a causa di problematiche legali legate alla distribuzione, la UCI dovette chiudere i battenti nel 1926. Il peplum italiano subì un arresto e inframezzato solo da un nuovo adattamento de Gli ultimi giorni di Pompei (1926) di Amleto Palermi e Carmine Gallone che non ebbe sorte dissimile. Eppure, a cento anni di distanza, forse il Quo Vadis? di Jacoby e D’Annunzio sembra finalmente pronto per essere compreso e apprezzato.