Una casa buia. Il giovane Edgardo si infila sotto il letto. Non si vuole far trovare dai suoi fratelli con cui sta giocando a nascondino. Un occultamento del corpo che si fa scena primordiale di un'originaria comunanza di corpi. Divertiti, si rincorrono, si scoprono, si riconoscono. Una scena spezzata da una parola, l'ordine di una madre di unirsi in preghiera. Da uno sguardo (e non, stavolta, da un enigmatico sorriso) della madre nasce la primaria identificazione di un figlio verso la madre.

Ma quel che istituisce la madre è un primo velo tra sé e suo figlio, quello della preghiera, della parola indubitabile, del dogma. Nonostante la parola si ponga originariamente come necessaria per una comune appartenenza, questa produce in realtà una frattura. Il corpo non può più essere riconosciuto se non dipendentemente da questa parola.

Nel suo ultimo film presentato in concorso a Cannes, Bellocchio si interessa della storia di rapimento del bambino ebreo Edgardo Mortara da parte dello Stato Pontificio per indagare i processi di identificazione nei legami affettivi che finiscono poi eventualmente per legittimare le credenze che limitano la libertà del soggetto. L'intera filmografia di Bellocchio è una processione di veli che frappongono l'uomo a una libertà originaria.

Ma in ogni suo film riesce a scoprire in maniera nuova le sue figure tipiche, a rimodellare le forme del genere melodrammatico, a rendere sempre più ambiguo il dualismo tra vita e apparenza. Dall'intensificazione spudorata di elementi realistici del melodramma erompono gli incubi reconditi, le pulsioni inconsce, i desideri di autonomia dei soggetti.

Assecondando la sua immaginazione melodrammatica, il film procede per varianti, costellando il film di veli: la famiglia ebrea chiude gli occhi nella preghiera dello Shemà; il bambino arrivato in un convento cattolico si nasconde sotto le lenzuola per poter pregare, una scena successivamente ripetuta in un incubo sulla sparizione della propria famiglia; la stessa scena del nascondino viene riproposta questa volta con Edgardo che si nasconde sotto la veste del papa protettore, la figura paterna sostitutiva che fornisce la nuova parola a cui credere ciecamente.

Se neanche il nascondino ha più la dimensione del gioco, se la figura genitoriale può essere riconosciuta solo attraverso la mediazione del dogma, dov'è possibile la libertà del soggetto in Rapito? Proprio nel gioco di intensificazione melodrammatica della finzione cinematografica. Difatti le scene più liberatorie sono quelle di maggior concitazione, come ad esempio la scena della liberazione di Bologna del 1859. Qui la fotografia evidenza la sua pittoricità, la fanfara musicale raggiunge un volume spropositato, gli effetti irrealistici spezzano l'illusione prodotta dalla ricostruzione storica, il linguaggio si fa sempre più autoriflessivo.

A volte si giunge anche ad esiti meta-testuali come nella trattenuta repulsione alla figura paterna che finisce per sfogarsi nella bestemmia, in una variazione de L'ora di religione. O come nella memorabile scena della fuga del Gesù in croce, chiaro rimando alle sognate fughe di Aldo Moro. Anche questa volta Bellocchio costruisce il desiderio spettatoriale di un strappo del velo figurando un padre che finalmente indichi la via di una liberazione, di una vita propria. E con grande maestria mantiene fino all'ultima scena l'illusione che ciò possa darsi sul serio.

Se non che una redenzione sembra potersi dare solo nel sogno o in quella fantastica macchina d'elaborazione psicoanalitica che è la finzione cinematografica.