2016, in piene elezioni presidenziali Trump vs Clinton. L’ex-pornostar Mikey “Saber” Davies torna dalle luci di Los Angeles alla scalcagnata cittadina texana da cui era partito. Qui cerca di ricominciare, conquistando la fiducia del prossimo col suo fascino da impunito e la sua parlantina. Riallaccia i rapporti con la moglie, vecchia collega di riflettori ora costretta a prostituirsi. Riprende il suo posto di spacciatore d’erba quando si rende conto che gli XXX Awards di cui va così fiero gli impediscono di trovarsi un lavoro serio. E mette in atto un’inquietante campagna seduttoria nei confronti della commessa diciassettenne (barely legal) del locale negozio di donut. Bella, giovane e affamata, Strawberry potrebbe essere il suo biglietto di sola andata fuori da Texas City.
Nell’ultimo decennio, prima fra gli addetti ai lavori e progressivamente per un pubblico più ampio, Sean Baker si è costruito una credibilità particolare all’interno della scena indie americana. Merito di uno stile che mescola felicemente – anche in senso editoriale - la perlustrazione dei margini della società statunitense con un’inconfondibile cifra estetica. Se l’uso di interpreti non professionisti e spesso bambini, le strutture narrative “aperte”, nonché la frequentazione di temi come povertà, degrado urbanistico e sfruttamento sessuale hanno più volte scomodato paragoni col Neorealismo, sul piano visivo il riferimento è complicato da un occhio per il dettaglio glossy, per la guarnizione luministica e i toni pastello, che fa da straniante contrappunto ai drammi narrati.
Nel 2018 il precedente Un sogno chiamato Florida l’aveva portato più vicino che mai al mainstream hollywoodiano con la candidatura all’Oscar di Willem Dafoe, unico attore professionista del cast. La cosa non è priva di un certo valore simbolico, giacché il cinema di Baker ha per fulcro la contraddizione fra idealismi da Sogno Americano (esemplificato proprio da Hollywood) e spaccati di disillusione sottoproletaria che vivono attorniati dalle sue macerie, com’era lo zuccheroso complesso residenziale disneyano di Florida. Questo fronteggiarsi di realtà e fantasia pervade fino in fondo i film del regista, scissi fra la descrizione impersonale del degrado e un’estetizzazione che qualcuno ha accusato di voyeurismo sociale, fra l’uso di facce prese dalla strada e scelte di casting liminali.
In questo senso Mikey Saber è il perfetto protagonista bakeriano. Un figlio dell’America profonda che ha barattato il suo accento texano con una celebrità sconveniente e di terza classe prima di trovarsi di nuovo al punto di partenza. Lo interpreta alla grande Simon Rex, a sua volta ex-almost famous salito alla ribalta a fine anni Novanta con video porno destinati al pubblico gay e poi affermatosi come vee-jay e rapper, con qualche sortita nel cinema come la saga Scary Movie. Come mai, sembra chiedersi l’autore, un individuo patetico e francamente inquietante riesce a entrare nelle grazie di tutti, popolando i sogni di rivalsa sociale della varia umanità che incontra e sfrutta? Che ci dice, di quest’Altramerica e della nostra coscienza di spettatori, il fatto di trovarci a tifare per lui?
Di certo non si può ignorare la metafora del trumpismo, onnipresente nei programmi televisivi che punteggiano la narrazione e di casa in questo contesto sociale impoverito, lo stesso raccontato dal contestatissimo Elegia americana (2020) di Ron Howard. Affermare che Mikey stia per Trump (con la sua capacità di “parlare alla pancia della gente”) è però tanto ovviamente plausibile quanto riduttivo. Forse il punto del discorso emerge meglio se si prende Red Rocket come un film che sfrutta il trumpismo e il suo humus sociale per dire qualcosa di più ampio sul rapporto politico fra contesti marginali, poveri tanto materialmente quanto culturalmente, e l’abitudine tutta americana alla speranza in un provvidenziale over the rainbow, si tratti dell’Ovest, della California, di Disneyland o di promesse elettorali.
Per quanto disillusa, l’America descritta da Baker resta prigioniera di una “coazione a sognare” veicolata dall’urbanistica, dal cinema, dalla tv-spazzatura, che la rende vulnerabile a tentativi di corruzione dall’esterno. Non a caso è frequente il tema dello sfruttamento sessuale (le sex worker transgender di Tangerine, l’industria porno in Red Rocket) e ancor più quello della pedofilia (le scene di adescamento in Red Rocket e Florida). In un’unica gigantesca messa in scena del detto “non accettare caramelle dagli sconosciuti”, il grooming si fa metafora universale delle insidie tese a una provincia sperduta e bambina da un paese falsamente camuffato da bomboniera, popolato da coloratissime gelaterie e negozi di ciambelle sul cui sfondo fumano le ciminiere di scenari industriali da incubo.
Dopo aver messo i bambini al centro del film precedente, il regista traccia ora un quadro desolante di regressione infantile. Ognuno dei personaggi è un ragazzino cresciuto che il mondo ha masticato e risputato, compreso Mikey (che gira su una bicicletta troppo piccola per lui), vittima-carnefice di un meccanismo circolare che per suo tramite rischia di attirare a sé nuove prede. In Florida il potere anarchico dell’infanzia riusciva ancora a riscattare un’esistenza di povertà, animando malgrado tutto il cadavere del Sogno. In Red Rocket questo prende la forma indimenticabile di una sigaretta a stelle e strisce consumata dalla combustione. Un piacere effimero, che dura troppo poco e lascia soli con niente in mano.