L’omaggio a Renzi prosegue su Cinefilia Ritrovata, riproponendo i ricordi dell’intellettuale bolognese (di adozione) a proposito dell’arresto e del processo per vilipendio alle forze armate che, nel 1953, lo vide – suo malgrado – protagonista insieme al critico Guido Aristarco della vicenda. La storia di L’armata s’agapò venne raccontata per la prima volta nel volume edito da Laterza nel 1954, Dall’Arcadia a Peschiera e successivamente ripubblicata a puntate in “Il Contemporaneo” nel 1955. Nel 1985, Renzi, ripropose il Diario di Peschiera ai lettori del periodico “Bologna Incontri”, dandone una nuova versione, con l’inserimento di episodi inediti. Sono gli scritti che ora riproponiamo. Il processo si concluse con la condanna a sette mesi e la rimozione dal grado per Renzi; a sei mesi per Aristarco. Immediata scarcerazione per entrambi. In seguito al clamore suscitato sarà poi limitata la giurisdizione dei tribunali militari e modificato lo stesso regolamento carcerario. Di seguito il testo.

 

Renitente alla leva, dopo l’Indocina

Un detenuto, che viene spesso a prendere libri in biblioteca, dice di essere stato in Indocina a combattere nella Legione straniera contro il Viet Minh.

È napoletano. Partì nel ’47 da Napoli per andare in Francia a cercare lavoro. Dopo sei mesi gli fu proposto un contratto di lavoro per una Compagnia mineraria in Algeria. Quando fu in Algeria si ritrovò arruolato nella Legione straniera, in corso di istruzione a Saidaa, sperimentando tutto ciò che già sappiamo sulla vita nella Legione straniera. Finito il corso fu inviato in Indocina. Sbarcò a Saigon e raggiunse Haiphong nel Tonchino, partecipando subito a scontri con i guerriglieri del Viet Minh. Quella guerra non la ricorda con piacere. Massacri, villaggi incendiati, fucilazioni. Una notte, sul fiume rosso, non avevano né tempo né posto per sotterrare cinquecento cadaveri. Allora li gettarono nel fiume dopo aver perso la notte ad aprire loro il ventre perché non galleggiassero. In seguito salvò una ragazza da una rappresaglia. Si chiamava Tuong Thi Hop, lavorava nella risaia, aveva sedici anni. La sposò. Poi la mise in una casa ad Haiphong, dove nacque una bimba, Lhanoi. Ma i figli dei combattenti venivano protetti dalla croce rossa francese, che li raccoglieva in ospizi. Poiché Tuong Thi Hop non gradiva quella protezione, essendo stata separata dalla figlia, si tolse la vita sulle scale dell’ospizio.

Dopo trenta mesi il napoletano fu rispedito in Algeria, mentre era ormai maturato in lui il proposito di andarsene. Per le sue ribellioni viene condannato a tre anni di lavori forzati nel deserto. Ma riesce a fuggire, da Kenifra verso Casablanca, mangiando datteri e bevendo acqua di pozzo. Si impossessa di un cammello che, dopo molti chilometri, legato ad un albero, per la fame mangia la corda e se ne va. A Casablanca il napoletano si nasconde agevolmente nella Casbah. Alla fine riesce ad imbarcarsi per l'Italia. Clandestino a bordo, viene segnalato alle nostre autorità: le quali scoprono che, a suo tempo, non si era presentato alla chiamata alle armi. A Genova, sbarcando, viene arrestato per renitenza alla leva, processato a La Spezia, condannato a quatto mesi.

Le avventure cominciarono nel ’47. Ha già fatto la guerra in Indocina. Adesso credo che dovrà fare il servizio di leva. Intanto è deciso a rivolgersi, per cercare lavoro, al sindaco Lauro.

 

Ho tradito Guido?

Guido non sa come dirmelo. Ha saputo da sua moglie, venuta a trovarlo, che alla madre di lui hanno detto, sì, insomma, che io mi sarei comportato male durante l'istruttoria, addossando ad Aristarco e alla rivista un bel po' di colpe e di responsabilità. Chiedo a Guido: “Tu ci credi?”. “No, io no. Per questo ti ho riferito la cosa”. “È chiaro – aggiungo – che vogliono dividerci. Ma come avrei potuto? L’articolo l'ho scritto e firmato io; in Grecia, della redazione, sono stato solo io. Ho soltanto detto che in una didascalia di una foto, dove si parlava di greci anziché di albanesi, l'errore era stato redazionale. La precisazione andava fatta per non svalutare la mia testimonianza. Altrimenti avrebbero detto che non sapevo nemmeno distinguere tra greci ed albanesi. Figuriamoci il resto!”.

Guido mi batte una mano sulla spalla, perché ha bene capito. Poi mi racconta che, in redazione, sono piovuti telegrammi e lettere di solidarietà specialmente dalla Francia. Hanno telegrafato i “Cahiers du cinéma”, “Positif”, l’Associazione francese dei critici cinematografici e televisivi, Claude Autant-Lara, quale presidente dell'Associazione degli autori di cinema, ecc. Del caso ha parlato il “Times” di Londra; il mio scritto è apparso integralmente in lingua russa sulla rivista “Iskustvo Kino”; i nostri nomi sono stati letti, preceduti da un bel “zivio”, sui muri di Jugoslavia; ci ha inviato un ideale, commosso abbraccio, un'Associazione democratica greca, a nome di tutte le madri di Grecia.

 

Due culture

Nell’ora d’aria che passo in cortile con gli altri ufficiali detenuti giochiamo con le pietre ad un gioco che dalle mie parti chiamano ‘zaccagno’. Ho giocato con un capitano d'artiglieria accusato di avere venduto, per il proprio profitto, parte della biada destinata ai muli. Si mescola anche un tenente di cavalleria, pullover nero sopra la camicia color caki, il quale, appena giunto da fuori, mi porta cattive notizie. Dice che l'ambiente militare è indignato contro di noi. Credo che desideri farmi paura. Suo padre era colonnello, suo nonno generale. Prevede una punizione molto severa. Ma lui, che ha fatto per essere qui? Si parla di un ammanco di due milioni nella cassa del reggimento. È meglio, dunque, parlare della guerra. “Badate, sono partigiano”, dice il tenentino. Poi elogia i repubblichini perché hanno combattuto per un'idea. “Non sono un militarista”, dice. “Ma è certo che Graziani era un gran generale”. Cita Clausewitz, dice che le guerre sono fatali. Ribatto che a furia di lavorare in questa prospettiva e di preparare continui apparati in questo spirito, fatali lo diventano sul serio. Parliamo di tante cose.

È un mistico. Fa l'elogio della clausura: e non ammette pentimenti. Quando uno ha scelto, deve mantenere la scelta fino in fondo. È un intransigente. Ci chiede in prestito caffè e marmellata. Speriamo che restituisca. Parliamo ancora dei frati. Certo, dice, molti ordini di frati studiano problemi spirituali, che servono a compilare libri letti da pochissime persone. Ma non sarebbe meglio che inventassero un nuovo tipo di motore, cosa ne pensate? È un pratico. Cattolicissimo, avversa il divorzio e sostiene la castità dei sacerdoti. “Candido”? Il più bel giornale d'Italia. Sente il bisogno di mostrare i suoi gusti raffinati. Evoca alcune marche di cognac, sogna una poltrona, una radio, il bridge. Si adatta allo scopone. Al cinema preferisce i film di Totò e Walter Chiari. “Una volta tanto, dice, noi persone colte possiamo anche scegliere il film filosofico, come Orizzonte perduto di Frank Capra, un colosso (Aristarco si arrabbia in silenzio): va bene, ma allora uno prende Leibniz e lo sfoglia… Non si può fare così tutti i giorni”. Capisce benissimo che gli ufficiali debbano avere, anche in carcere, un trattamento diverso da quello dei soldati: perché diverse sono le esigenze, dovute ad una educazione superiore che ha creato altre abitudini. “Venisse il figlio di Brusadelli, è logico che andrebbe trattato meglio: perché ha interessi spirituali elevati”. I soldati rovinerebbero ciò che venisse loro concesso in più.

Una diversa concezione del mondo la mostra un tenente dei carabinieri barese, detenuto non so per quale accusa. Pare un buon uomo. Si commuove spesso e perdona tutti. Dice che il mondo è pieno di ingiustizie. Ma io vorrei sapere perché si trova qui. Mi parlano di un traffico di venti milioni e di una ‘topolino’ ingiustificata. Intanto, è difficile, con lui, affrontare un qualsiasi argomento. Parliamo della mamma. Poi di una Madonna dai cui occhi escono lacrime. Dice che queste cose accadono nel Meridione perché là ci credono veramente, è una fede sincera. Descrive alcune feste religiose: debbono essere magnifiche. Se fa il bilancio della sua vita, scopre che non ha mai fatto male a nessuno. Contrariamente al collega col pullover nero è ottimista sulla nostra sorte. Ci assolveranno certamente.

 

Un monumento a Peschiera

In biblioteca è conservata una pubblicazione, Italia bella, edita a Milano nel 1911, che racconta la storia di Peschiera nelle guerre dell’indipendenza italiana. L'autore, nella prefazione, si batte per l’erezione di un monumento a Peschiera. “Anche però, pensai, che se tutti capiscono senza spiegazioni che si debbono erigere monumenti a Re Vittorio ed a Garibaldi (ed il Garda, unico tra i laghi italiani, non ha ancora un monumento al biondo eroe!) od anche a Cavour ed a Mazzini (sebbene l'opera loro sia meno nota alle masse), non sarebbero stati numerosi coloro che avrebbero compresa la ragione di un monumento a Peschiera, monumento simbolico, che non deve ricordare una persona, ma un fatto, anzi una serie di fatti!.

Il numero di coloro che fossero capaci di comprendere la necessità del monumento, non è aumentato da allora. Eppure Peschiera ha subito quattro assedi: due nel 1848; uno ad opera degli italiani contro gli austriaci rinchiusi nel forte, poi degli austriaci contro gli italiani; uno nel 1859 ancora degli italiani contro gli austriaci; infine, uno nel 1866, nella stessa disposizione, con vittoria conclusiva degli italiani. La lettura di questi quattro racconti è assai dilettevole. Meriterebbe musiche di Johann Strauss. Basterà citare le ultime vicende dell'assedio conclusivo e liberatore del 1866.

All'interno, le truppe austriache, stremate dall'assedio, sono ormai costrette a mangiare soltanto carne di cavallo e perciò sono affette, in larga misura, da dissenteria. Alle ore 14 del 26 maggio il Re fa cessare il fuoco e propone la resa. Gli austriaci chiedono quattro giorni di armistizio. Trattative. La mattina del 30 Ettinghausen annuncia al barone Rath l'esaurimento dei soldati: perciò viene autorizzato ad arrendersi. Ettinghausen parte verso i piemontesi, mentre il maggiore Lamarmora, che aveva saputo della intenzione dell'austriaco, lo viene a cercare a Porta Brescia. Non si trovano. Alla fine, dopo qualche ricerca, si trovano e perciò viene concertata la resa lasciando agli austriaci le armi, le vettovaglie e le trombe, col diritto di suonarle. È il 30 maggio (il forte ora si chiama ‘Caserma 30 maggio’). In tutto, per quest'ultimo assedio, furono sparate 5.838 palle.

 

Gli eventi precipitano. Si parte per Milano

È venuto a trovarmi per la seconda volta mio padre. Non ho visto un avvocato, né ho potuto rileggermi l'articolo incriminato, scritto sette mesi prima (lo ascolterò per la prima volta, intero, in aula, letto dal cancelliere). Mio padre, in rapporto con gli avvocati, mi illustra la situazione, mentre si capisce che è allarmato perché essi hanno dato poche speranze e perciò non sono venuti nemmeno a trovarmi. L'avvocato Gallo ha visto solo Aristarco, forse per tranquillizzarlo, perché la sua è una responsabilità indiretta.

Mio padre, che trattiene a malapena le lacrime, mi dice che dovremo decidere se fare o meno la questione della competenza del tribunale militare a giudicarci. Facendo la questione della competenza il processo verrà rinviato e noi dovremo restare in carcere altri mesi, quanti ne occorrono perché la Cassazione dia una risposta. Frattanto, poiché la cosa è giunta in Parlamento, si spera in una rapida modifica della legge in senso costituzionale. La decisione è grave. Altri mesi? Quanti saranno? Sono qui rinchiusi detenuti in attesa di giudizio da due anni. E il Parlamento ci metterà davvero alcune settimane? D’altronde, tutti coloro che si sono schierati in nostra difesa lo hanno fatto anche per la questione della competenza del tribunale militare a giudicare cittadini in borghese. Come deluderli, rinunciando ad una simile questione di principio?

Passo una notte assai dura: alla fine della quale ho deciso, perché sono riuscito a farmi un programma di lavoro per i mesi a venire, da passare in carcere. Leggerò libri, me ne farò inviare altri, scriverò il testo per un volumetto che mi è stato commissionato da tempo: tutte cose che non farei, fuori di qui. La mattina dopo Aristarco mi dice di essere arrivato a queste stesse conclusioni: faremo la questione della competenza prima del processo.

Ma il procedimento a nostro carico, sotto la pressione dell’opinione pubblica, è andato fortissimo. Infatti, il giorno dopo ci comunicano che l'istruttoria è già stata chiusa. La questione della competenza, ora, si potrà fare soltanto in aula. Basta. Intorno a noi si è fatto molto chiasso. Gioverà, non gioverà? In queste occasioni c’è il pericolo di sentirsi degli eroi, mentre nessuna scelta eroica fu compiuta da parte nostra, quando scrivemmo e pubblicammo l’articolo. Infatti non avremmo mai previsto che sarebbe finita così.

Mio padre, come dicevo, mi ha lasciato quasi piangendo. Se al civile, per un simile reato, la pena prevista è da sei mesi a tre anni, condizionale fino a due anni, nessun arresto preventivo, quindi è quasi certo che, in ogni caso, non si fa un solo giorno di prigione; al militare, viste le diverse pene e le diverse possibilità di difesa, è quasi certo che in prigione ci si resta. Assai differenti sono, quindi, le condizioni psicologiche nelle quali un imputato affronta il processo. Vedremo. Tra qualche giorno saremo a Milano. Il trasporto avverrà in automobile o in ferrovia, con o senza manette? In ferrovia, mescolati ai viaggiatori che non sanno, sarebbe umiliante. Il trasporto avverrà in automobile. Senza manette.

 

Renzo Renzi, Monumenti e palle di cannone. Diario di Peschiera (2), “Bologna Incontri”, maggio 1985, pp. 16-17