Come accaduto altre volte, Cinefilia Ritrovata – vista l’importanza del film, in programmazione al cinema Lumière – propone due interventi dei suoi collaboratori per un più ampio ventaglio critico. Film di grande successo, Revenant sembra avere un unanime consenso di pubblico ma sfumature più ampie presso gli esperti. Ecco dunque due interessanti opinioni, a seguire. 

Dopo il grande successo (e i quattro Oscar) di Birdman, Alejandro González Iñárritu, mette insieme un’altra importante opera che ha ottenuto ben dodici candidature alla notte degli Oscar prossima ventura. Ma, a parte i premi che, come dichiarato dallo stesso Leonardo Di Caprio, “sono dei bonus e i film non vengono fatti per questo”, The Revenant è una pellicola che brilla in tutti i reparti menzionati dall’Academy. L’autore messicano prende spunto dalle vicende di Hugh Glass, cacciatore di pelli che, negli anni venti del diciannovesimo secolo, fu abbandonato dai compagni, in fin di vita, in seguito all’aggressione di un orso. L’uomo si riprese e percorse circa trecento chilometri, spinto da un’insaziabile sete di vendetta. Questa storia è piuttosto conosciuta negli Stati Uniti e Iñárritu si rifà al libro omonimo del 2002 scritto da Michael Punke, pur prendendosi diverse libertà per utilità narrative e tematiche.

Dopo una sequenza onirica esplicativa del passato di Glass, un lento movimento ad avanzare sull’acqua introduce i primi personaggi e fa dichiarazione esplicita dell’importanza che avrà l’impianto visivo nell’economia filmica. Sembra di stare in un film di Terrence Malick e, infatti, il direttore della fotografia è lo stesso: Emmanuel “El Chivo” Lubezki (già premio Oscar per Gravity e Birdman, in odore di terza statuetta consecutiva), che sfrutta al meglio i paesaggi epici e la luce naturale, avvicina la macchina da presa ai corpi degli attori, tanto che la lente spesso è appannata dal fiato, bagnata dalla neve o sporcata dal sangue. Tutto questo potrebbe significare una straniante denuncia di artificio, ma la potenza realistica delle immagini fa sì che lo spettatore rimanga ben saldo all’interno della storia. Questa ricerca di realismo non sottrae però la narrazione a deliri febbrili e onirici del protagonista, che hanno la funzione di scoprire parti del passato di Glass e di dare sostanza al rapporto genitore – figlio, del quale il cinema dell’autore messicano non è nuovo.

Leonardo Di Caprio, nelle vesti di Hugh Glass recita in posizioni innaturali, strisciando, zoppicando, sbavando, urlando, lottando con un orso, dormendo dentro la carcassa di un cavallo, impossibilitato a parlare per gran parte del tempo fa un magistrale uso della propria corporeità, entrando visceralmente nel personaggio e regalandoci/si una delle sue migliori interpretazioni, finora. Nonostante il film sia costruito principalmente sul suo personaggio, il livello recitativo generale rimane alto, soprattutto per quanto riguarda la nemesi di Glass, Fitgerald, il villain incarnato da Tom Hardy il quale tiene perfettamente testa all’interpretazione di Di Caprio, ottenendo una meritatissima candidatura all’Oscar come miglior attore non protagonista.

Elemento centrale della narrazione che si erge quasi a personaggio è la Natura e il rapporto che essa crea con il protagonista, il quale sembra l’unico ad averne comunque rispetto, nonostante le numerose difficoltà alle quali questa lo sottopone. È una lotta per la sopravvivenza quasi impossibile, fomentata dal desiderio di vendetta verso il nemico, che diviene sola e unica ragione di vita per Glass. Lo scenario è il Grande Nord, il Nord Dakota (in realtà il film è girato per la maggior parte in Canada e Argentina) che, assieme alla collocazione storica rimanda al mito della frontiera, aprendo le porte per una possibile lettura del film in chiave western, con tanto di duello finale.

Se aveva girato Birdman in un unico (falso) piano sequenza, Iñárritu rimane legato al movimento di macchina e al long take: non stacca quando lo si aspetta, muove la camera come se fosse una presenza invisibile al centro della scena pronta a saltare da una parte all’altra e posare il proprio occhio dove l’azione è più interessante. Il plot è molto semplice, The Revenant presta meno attenzione ai risvolti narrativi per sprigionare tutta la sua forza sul piano visivo e sul versante del linguaggio cinematografico, del quale Iñárritu è sempre stato un virtuoso.

Film crudo e violento, bello e potente, che fa ben sperare per l’anno cinematografico appena cominciato.

Stefano Careddu

 

 

 

Stati Uniti d’America, inizio Ottocento. Il cacciatore Hugh Glass ha un unico obiettivo: riportare a casa i suoi compagni di caccia e proteggere il suo figlio pellerossa Hawk. Dopo essere stato aggredito da un feroce grizzly, il membro più livoroso del gruppo, John Fitzgerald, gli uccide il figlio e lo lascia in fin di vita nelle gelide foreste del Nord Dakota. La sete di vendetta spingerà Glass a sfidare le avversità della natura circostante e a superare i propri limiti fisici e mentali.

Lasciate alle spalle le irriverenti critiche al decadimento umano e culturale di Hollywood in Birdman, Alejandro G. Iñarritu spiazza nuovamente gli spettatori grazie a un’opera monumentale che sovverte i canoni del genere western (Sentieri selvaggi e Corvo rosso non avrai il mio scalpo tra le principali influenze) per raccontare una parabola sulla dualità degli uomini, perennemente divisi tra conflitto e armonia.

Il paesaggio, naturale e umano, dipinto dal regista messicano trova la sua ragion d’essere in una violenza cieca e primordiale che non risparmia nessuno. Uomini bianchi e nativi americani lottano sempre su due fronti opposti, ma non come stereotipati rappresentanti del Bene e del Male, bensì come uomini ridotti al rango di bestie dal loro sfrenato individualismo. La natura stessa, vera protagonista del film, non è più un’entità silenziosa e indifferente come Malick e Herzog ci hanno insegnato, ma una minaccia ancor più feroce e roboante degli uomini che la popolano, costantemente martoriati e messi alla prova dalla furia degli elementi.

In questo mondo di individui anaffettivi ed egoisti, Hugh Glass muore, risorge, lotta e sanguina grazie a una forza di volontà fuori dalla norma, alimentata non dal desiderio di sopraffazione comune agli altri personaggi, ma dal dolore per la perdita del figlio. La chiave di comprensione del film sta proprio nelle motivazioni del protagonista: Iñarritu prende una classica trama da revenge movie e la trasforma in un poema epico sull’elaborazione del lutto, in cui i vivi si ricongiungono ai morti nella sfera onirica e il superamento delle possibilità umane ci rende ancor più consapevoli della nostra mortalità.

Limiti umani, quindi, ma anche limiti del mezzo cinematografico, qui brillantemente oltrepassati dal lavoro sull’immagine del direttore della fotografia Emmanuel Lubezki. Servendosi solo di luce naturale, la macchina da presa fluttua attraverso i campi di battaglia, ci stordisce con un iperrealismo esasperato fino a dare una dimensione metafisica alla natura rappresentata, ci fa sentire il freddo della neve e il fiato dei protagonisti in faccia, regalandoci un’esperienza totalmente immersiva come poche volte si era visto sul grande schermo.

Leonardo DiCaprio si conferma uno degli attori più coraggiosi della sua generazione, grazie a una performance in cui il corpo prende il sopravvento sulla parola (le sue battute si contano sulle dita di una mano) e l’immedesimazione nel personaggio raggiunge vette iperboliche, ma la vera sorpresa è il John Fitzgerald di Tom Hardy, sfregiato nel corpo e nello spirito, incarnazione demoniaca della rapacità e dell’egoismo che dominano la società (in)civile e che segneranno la nascita della futura civiltà americana.

The Revenant è quindi un tour de force negli abissi dell’animo umano, un racconto carico di spiritualità che trova la sua origine nel sangue e nel fango di cui l’America è intrisa.
Come e più di Birdman, il film è destinato a spaccare in due l’opinione del pubblico, ma ciò che resta, al di là dei giudizi di valore, è una dimostrazione della potenza espressiva del cinema e della sua capacità di trasfigurazione del reale.
Francesco Cacciatore