Il 29 aprile scorso, è morto a soli 51 anni un regista di cui si è sempre parlato troppo poco, John Singleton. Nato dieci anni dopo Spike Lee e dieci anni prima di Ryan Coogler, anche lui è stato un attento e appassionato osservatore della comunità afroamericana. Le sue pellicole non avevano la carica eversiva e rivoluzionaria di Lee, sia sul piano stilistico che dei contenuti e questo però ne ha certamente facilitato fin da subito l'apprezzamento e l'inserimento all'interno del sistema produttivo hollywoodiano. Tuttavia Boyz n the Hood pellicola d'esordio con la quale Singleton ottiene la nomination all'Oscar come miglior film a soli 23 anni, resta un lavoro sincero e appassionato, capace di inserirsi senza intenti moralizzatori fin dentro le contraddizioni della comunità afroamericana, troppo spesso vittima della sua stessa violenza.
Quando esce Boyz n the Hood siamo nel 1991, Lee aveva già fatto sudare freddo a Hollywood e fatto drizzare le orecchie con viva preoccupazione a tutta la politica americana con Fa' la cosa giusta di soli due anni precedente, ed è forse anche in questo senso che possiamo leggere il notevole consenso che ebbe l'opera prima di Singleton, quasi si volesse dichiarare a gran voce che questo tipo di cinema black, meno rabbioso e schierato, e anche stilisticamente meno ardito, questo sì, era concesso e apprezzato e non altro. In realtà, quello che non venne compreso allora era che la durezza dell'opera di questo giovanissimo regista, con uno sguardo più sociologico che spietatamente politico come era quello di Lee, agiva sottotraccia, e pur se con uno stile meno aggressivo e ardito, ma non meno raffinato, offriva una nuova prospettiva sulla comunità afroamericana, osservata sotto l'ottica di un determinismo sociale che nessuno ha più raccontato con questo realismo, sfidando alcuni preconcetti sui neri e sulla loro comunità, per parlare anche e sopratutto a quella stessa comunità.
Dieci anni dopo quel primo film e dopo aver acquisito una certa fiducia da parte delle major con altre pellicole non tutte riuscitissime in verità, Singleton realizza il suo film più radicale e certamente anche il suo più personale e interessante: Baby Boy. Un film che potremmo definire “a tesi”, almeno stando al folgorante inizio nel quale, mentre osserviamo sconcertati un uomo immerso in un metaforico liquido amniotico, la voce fuori campo del protagonista ci espone la teoria di una psichiatra americana, Frances Cress Welsing, secondo la quale “...a causa del problema del razzismo l'uomo di colore è stato portato a considerare se stesso come un bambino, un essere non ancora completamente formato che non sa concretizzare le proprie potenzialità” (citiamo dal doppiaggio del film).
L'osservazione dell'ambiente si fa più accurata e pur restando in un contesto narrativo del tutto similare al suo primo film, qui la storia ruota attorno ad un uomo che vive la contraddizione di una maturità verso la quale si sente inadeguato, rappresentata da un figlio in arrivo, e una infanzia che si vorrebbe trattenere e reiterare per sempre, vissuta attraverso un legame di forte dipendenza dalla madre. Singleton, giocando sul registro intimo e psicologico del personaggio, disegna così una simbolica parabola sulla condizione dei giovani afroamericani e sul loro essere contemporaneamente vittime del loro ambiente e incapaci di assumersi la responsabilità di cambiarlo.
Attorno a questi due film che rappresentano in effetti la spina dorsale della sua filmografia, ruota una carriera sempre in bilico fra istanze autoriali e lavori meno personali, nei quali il regista riesce comunque sempre ad inserire uno sguardo personale che lo distacca da prodotti simili ma assai più anonimi: 9 lungometraggi, alcune puntate nel mondo della serialità televisiva, tra le quali ricordiamo Snowfall, una serie tv ideata da lui ora alla terza stagione e alcuni interessanti interventi come produttore (si deve a lui l'esordio alla regia di Craig Brewer con il notevole Hustle & Flow, un film certamente vicino al miglior cinema di Singleton) e naturalmente sempre a Singleton dobbiamo la scoperta e il lancio di una serie di attori ormai divenuti star riconosciute, Cuba Gooding, Jr, Tyrese Gibson, Taraji P. Henson, Terrence Howard, Ice Cube, solo per citarne alcune.
Grande appassionato e cultore di musica rap, come Spike Lee fece conoscere i pezzi esplosivi dei Public Enemy, fondamentali per veicolare i suoi messaggi politici in alcuni dei suoi film, anche Singleton fa conoscere e diffonde, inserendolo per primo in maniera organica nelle sue colonne sonore, il gangsta rap, un genere che si sviluppa negli stessi ghetti di cui racconta il suo cinema.
Ci piace concludere questo breve ricordo pensando ad una sua pellicola del 2005, Four Brothers, che ci sembra una felice sintesi dei temi più cari al regista e anche la sua più matura prova di stile registico. Quattro fratelli si ritrovano attorno al funerale della madre adottiva, uccisa in circostanze poco chiare, ripromettendosi di scoprire i colpevoli e di vendicarla.
L'ambiente è quello di una Detroit cupa e innevata, i quattordici anni passati da quella prima pellicola hanno reso meno urgenti le istanze razziali ma non hanno risolto l'idea di un ambiente ostile con gli ultimi, che condanna alla criminalità per mancanza di alternative. Così, mentre il pensiero corre a I 4 figli di Katie Elder, il western di Hathaway del 1965 di cui il film è un evidente omaggio, pur se non dichiarato, l'amore di una madre che dà una possibilità a quattro ragazzi senza speranza e senza nessuna possibilità diventa forse la più intensa e riuscita critica sociale di tutto il suo cinema. Un “western metropolitano”, come è stato definito, dai toni crepuscolari e con ottime sequenze di azione che, oltre a offrire a Mark Walhberg la sua più convincente e matura interpretazione, si propone, rivisto oggi, come il miglior congedo possibile, per un regista di grande talento il cui sguardo sensibile siamo certi ci mancherà molto.