“Parlare dei morti e dei martiri civili è difficile perché è facile farne un santino” così si era espresso Libero De Rienzo in una intervista del 2010 a proposito del film Fortapàsc nel quale diede un volto al giornalista Giancarlo Siani ucciso dalla camorra napoletana a soli 26 anni, che gli valse una nomination al David di Donatello come miglior attore protagonista. Così oggi difficile lo è per noi parlare di Libero che non c’è più, tentando di restituire ai lettori una sua immagine non fasulla, non preconfezionata, ma spontanea, gentile e profonda come era l’uomo oltre l’attore.

Nato a Napoli da genitori irpini si trasferì a Roma ancora bambino e nella città eterna scoprì la passione per la recitazione, seguendo le orme del padre, Fiore De Rienzo, aiuto regista di Citto Maselli e giornalista di Chi l’ha visto?. Gli amici più intimi lo chiamavano Picchio, usanza non rara al Sud quella di attribuire un nomignolo alle persone che si contraddistinguono da subito per particolari caratteristiche, o per una forte personalità. Libero/Picchio salì sul set già a quattro anni “per un film di ragazzini che trovano un tesoro etrusco a Cerveteri” (quasi una precognizione dei Goonies), trovando egli stesso un tesoro, come racconta in una delle poche interviste disponibili dell’attore (quella di Federico Rocca per Vanity Fair), ossia il suo primo coltellino svizzero: “Mio nonno diceva che un gentiluomo deve sempre averne uno con sé, per risolvere i piccoli problemi. E un fazzoletto, per le signore”. Era una persona gentile Libero De Rienzo, così vorremmo coniugare il suo ricordo usando la gentilezza (oggi così desueta) come parola chiave della sua immagine attoriale.

In campo letterario per declinare il tema della gentilezza, Emily Dickinson scelse una parola solenne come “chivalry”, riferendosi ad un gesto di cavalleria, una nobile cortesia generosa, ma allo stesso tempo piccola, intima, quasi inconfessata. Scriveva Dickinson “Da attenzioni così discrete,/un fiore, un libro,/sono piantati semi di sorrisi/che prendono vita nel buio.” Così noi abbiamo sempre percepito Libero De Rienzo nelle sue manifestazioni cinematografiche, come un antico cavaliere dall’animo nobile e generoso, capace di farci sorridere e ridere a crepapelle in tantissime occasioni proprio grazie al vecchio meccanismo del sovvertimento comico. De Rienzo piantava semi di sorrisi nei suoi copioni proprio grazie a questo continuo rovesciamento radicale della sua essenza più intima e nascosta: calzava a pennello i panni del poltrone cinico e indolente (il “Bart” di Santa Maradona) o di un economista che cerca di applicare al poker le sue abilità matematiche (Smetto quando voglio), proprio perché questi personaggi rappresentavano il suo esatto contrario. L’abito comico da lui indossato si traduceva in una primaria trasgressione di se stesso e di ciò che lui era nella realtà di tutti i giorni, tanto gentile nella vita reale quanto inurbano e screanzato nel suo doppio cinematografico, tanto profondo ed impegnato come uomo, tanto superficiale e facilone nei suoi personaggi.

Libero De Rienzo sorprese tutti quando chiamato da Milly Carlucci sul palco dei David di Donatello nel 2002, per ritirare dalle mani di Roger Moore il suo premio come Migliore attore non protagonista per il personaggio di Bart in Santa Maradona (in una tripletta che lo vedeva gareggiare al fianco di Silvio Orlando per Luce dei miei occhi e Leo Gullotta per Vajont), lo dedicò alla Palestina: “Sul mio cuore pesa il troppo sangue che sta sgorgando in Palestina…lancio un appello, per quello che può valere la mia umile voce, affinché tutti abbassino la testa... perché è inaccettabile che i poveri non abbiano cibo e che i malati non abbiano medicine”. Non ce lo saremmo aspettato da Bart, da quel personaggio che scacciava malamente una signora dalla libreria, perché aveva fatto confusione tra “libri new age del cazzo” (ndr. La profezia di Celestino di James Redfield) e un best seller come La compagnia dei Celestini di Stefano Benni. Eppure “La sregolatezza pura, che non ha a che fare col genio” esaltava Bart, ma non era una cifra propria di Libero. De Rienzo era quel tipo di attore capace di restituire una tale verosimiglianza ai suoi personaggi, da indurre il pubblico nella confusione tra finzione e realtà. Perchè il suo volto, e la sua voce aderivano talmente bene ai personaggi che gli erano tagliati addosso da indurre a pensare che Libero fosse Bart, che Libero fosse Filo (il protagonista della black comedy di Andrea Magnani con Nicola Nocella Easy) o Bartolomeo, in ogni caso quasi sempre interprete del ruolo del “gabbatore” col sorriso, bidonista e ciarlatano, espressione del vecchio archetipo comico tutto italiano, e sua riesumazione del secondo millennio.

Per questo forse ci faceva tanto ridere quando faceva la sua comparsa in film successivi coi capelli leccati e l’aria per benino (come nel recentissimo Fortuna di Gelormini per esempio), perché pareva beffarsi della stessa immagine di sé con la quale si era prevalentemente presentato sulle scene del cinema. Ci mancherà la sua faccia piaciona, il suo essere attraverso il cinema l’espressione di una generazione (che è poi anche la mia), la generazione X, di quelli nati tra gli anni ‘60 e gli ‘80, la generazione Nintendo (e infatti sono tantissimi i suoi personaggi che bruciano ore ed ore davanti ai videogame), una generazione vissuta all’ombra di un novecento che già non era più e delusa dalle promesse non mantenute di un nuovo millennio senza ideologie, ma affezionata ai vecchi ideali, una generazione nessuno che ha saputo traghettare i nuovi giovani verso un nuovo mondo, quello per il quale noi stessi eravamo troppo giovani da giovani e poi già troppo vecchi. Tanto vecchi da capitarci di morire a soli 44 anni. Ma se, come diceva sempre Bart in un altro monologo ormai cult per la sua stessa generazione, “E’ il mondo che va in fretta” e sono le cose che ci scorrono davanti come se stessimo seduti a guardarle dal finestrino di un treno in corsa, se cioè riuscissimo a ristabilire la relatività del tutto, allora forse potremmo trovare consolazione nel pensiero che Libero abbia corso stando al passo coi suoi tempi e che se ne sia andato a 44 anni, avendone vissuti almeno il doppio, con generosa intensità.