A 45 anni dalla sua uscita e a 10 dalla morte di Giuseppe Bertolucci, ritorniamo su un grande film italiano.
Il Cioni Mario, rigorosamente con l’articolo davanti, fu un’invenzione dirompente che fece passare non pochi guai ai suoi creatori, Roberto Benigni e Giuseppe Bertolucci. Il personaggio del contadino toscano semianalfabeta che vorrebbe fare grandi discorsi ma non trova le parole, balbetta, tentenna, e alla fine si abbandona all’istinto di un provincialismo da bar, fece il suo debutto nel 1975 con lo spettacolo teatrale Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, che Bertolucci e Benigni portarono in giro in tutti i teatrini off d’Italia. Benigni interpretava quella maschera con una bravura tale che inizialmente il pubblico pensava parlasse così davvero.
La sua prima volta dentro uno schermo lo abbiamo nel 1976 con Onda libera, bizzarro programma televisivo di quattro puntate su Rete 2, in cui il Cioni rubava le frequenze Rai (“Cioni! S’è preso l’onda!” gridava il sodale Carlo Monni) interferendo col palinsesto per un’ora di monologo durante il quale, con piglio rivoluzionario, cercava di destare l’Italia dal sonno dell’intrattenimento leggero di quegli anni. Dello stesso periodo (anche se la Rai lo avrebbe mandato in onda solo nel 1978) è anche Vita da Cioni, programma di tre puntate di mezz’ora l’una in cui la formula più o meno si ripete: “Benigni mette in scena il sottoproletario Mario Cioni, che conosce solo il linguaggio del corpo e si esprime con furiose invettive contro tutto ciò che lo circonda. Rabbioso, forte disperatissimo” (Cinematografo.it).
Questi innovativi esperimenti televisivi fecero scalpore al tempo, il che fa abbastanza sorridere se pensiamo che erano (per ammissione dello stesso Benigni) versioni edulcorate dello spettacolo teatrale originario. Ma il polverone che sollevarono non fu nulla se confrontato allo scandalo che fece nel 1977 il passaggio del Cioni dal piccolo al grande schermo con Berlinguer ti voglio bene, scritto da Benigni e Bertolucci e diretto da quest’ultimo. Odiato dalla censura democristiana al punto che per anni cercarono di impedirne la proiezione nei cinema, la pellicola ancora oggi trova qua e là denigrazione, viene spesso bistrattata, ridotta a semplice atto provocatorio fine a se stesso. In realtà racconta molto più di un contadino comunista che vomita imprecazioni in aperta campagna.
Berlinguer ti voglio bene conserva nelle sue immagini un tempo che non c’è più, ghermisce con le unghie ancora sporche di terra bagnata un microcosmo fatto di detti popolari, proverbi, poesie bucoliche, lo mette dentro un barattolo e lo appoggia sopra la mensola. Chi vuole può togliere il tappo e riscoprire quel mondo. Un mondo in cui il più erudito si indigna al cinema durante la visione di un porno perché sospetta il protagonista sia gay (“il protagonista buco l’è un insulto al popolo italiano!”); in cui invece di provare a capirla veramente la politica ci si abbandona a sensazionalismi, si vuole bene al leader del partito come fosse un amico con cui ragionare per i campi e dal quale si aspetta il segnale per passare all’azione; dove si sente il bisogno di aprire un dibattito sull’eventuale possibilità della donna “di permettisi di pareggiare coll’omo”.
Il tutto, e qui viene il bello, in un contesto che dovrebbe suggerire una perlomeno teorica attitudine progressista. Perché è il Cioni a mettersi a gridare al cinema. È Berlinguer il leader del partito tanto amato. E il dibattito da cavernicoli non avviene in un circolo di estrema destra, ma dentro una Casa del Popolo.
Bertolucci e Benigni irridono le contraddizioni del paesino, la realtà provinciale che non è mai davvero di sinistra anche se si spaccia per tale, perché troppo assuefatta da luoghi comuni dettati da un’ignoranza tramandata nei secoli. Anche il Cioni stesso si ritroverà a pagare lo scotto di una tale ristrettezza mentale: la sua esuberanza dal candore infantile verrà infatti più volte ammonita dalla madre, verso la quale ha un irrisolto complesso edipico che gli impedisce di emanciparsi, con lei che pur di correggerlo lo porta in chiesa a parlare col prete.
Non è forse questo crudo e sincero affresco popolare un figlio illegittimo del neorealismo? È così azzardato riconoscervi uno sguardo pasoliniano in come Bertolucci ami fortemente immergerci in qualcosa di raccolto dalla strada, in mezzo alla campagna, tra i canti dei grilli? Ce l’avrebbe anche una trama questo meraviglioso, irripetibile film, ma se qualcuno me la dovesse chiedere non saprei come rispondere. Perché davvero non è importante.