Nella rilettura su grande schermo di Jesus Christ Superstar, monumentale rock-opera scritta da Andrew Webber e Tim Rice, si scorge in superficie la potenza evocativa e il movimento dionisiaco, a tratti urlato e parossistico, della “musica del diavolo”. Sono trascorsi ormai cento anni dal celebre patto sancito dal “fingerpicking man” con Satana in persona, ma le folte schiere di bluesman e rocker che seguirono l’esempio di Robert Johnson non fecero che alimentare la mitologia pagana dell’accordo siglato col maligno.
Era il 1956 quando Rock Around the Clock teneva il tempo di un’intera generazione scandendo i passi veloci dei giovani e le loro movenze forsennate. Ma già nell’anno precedente era uscito al cinema Il seme della violenza di Richard Brooks, sui cui titoli di testa risuonava il celebre motivetto rockeggiante cantato da Bill Haley. Da allora il sodalizio tra il rock e le immagini in movimento è divenuto cassa di risonanza per gli spettatori di tutti i tempi, musica per il sacro e per il profano, come ha insegnato per primo Jesus Christ Superstar, seguito molti anni dopo dal dissacrante dramma apocrifo L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese.
Il film, diretto da Norman Jewison, traspone sullo schermo le turbolenze acustiche e l’invasamento mistico reinterpretato dal vitalismo della controcultura hippie. Proprio un gruppo di giovani figli dei fiori si riunisce presso il deserto del Negev, tra le rovine di Avdat, per mettere in scena gli ultimi sette giorni della vita di Gesù, dalle predicazioni a Gerusalemme alla morte in croce per mano di Ponzio Pilato. Durante il suo periglioso cammino Gesù, umano troppo umano, si circonda come una rockstar maudit di fan che lo idolatrano e di una giovane “groupie” (Maria Maddalena) intenta a detergergli piedi e mani con balsami profumati.
Nell’umanesimo euforico di Jesus Christ Superstar il mito religioso si fa carne – nelle fattezze iconiche di Ted Neeley – e lascia che lo spirito evangelico si trasformi in movimento eversivo sulle note di una crepitante colonna sonora. Dalla ouverture che segna l’inizio della messa in scena al movimento d’orchestra finale, nessuna predicazione o alcun monologo si levano dal monte Sinai senza l’accompagnamento dei brani scritti da Andrew Webber e Tim Rice, cingendo lo spazio sacro della via crucis con elementi visti, all’epoca, come uno shock culturale: il pragmatico Giuda di colore (Carl Anderson), vittima di eventi più grandi di lui, l’esotica Maddalena soggiogata dal fascino del Messia, Gesù Cristo tremebondo e colmo di una fragilità tutta umana. Il “rock around the cross” di Jewison ha ridefinito, con sensibilità moderna, i linguaggi di cinema e teatro sconvolgendo la cristianità con l’empio ballo a ridosso della Resurrezione.