Prima dell’epoca attuale, in cui registi come Guillermo del Toro, Alejandro Gonzáles Iñárritu ed Alfonso Cuaròn hanno portato il cinema messicano ad intrecciarsi saldamente con il sistema produttivo hollywoodiano, c’è stato un periodo in cui l’industria cinematografica del Paese dell’America Centrale ha conosciuto una condizione di estrema popolarità e valore artistico. Si tratta del lasso di tempo che intercorre tra i primi anni 30 ed il primo lustro degli anni 60, il quale viene ricordato come la ”Golden Age del cinema messicano”.

Allora come oggi, il successo delle opere era legato principalmente ad una triade di cineasti particolarmente prolifici: parliamo di Julio Bracho, Emilio Fernández e Roberto Galvadòn. Quest’ultimo, nonostante possa essere considerato il meno conosciuto fra i tre pilastri dell’epoca d’oro messicana, rappresenta una figura di spicco per la dimensione strettamente politica che permea alcune delle sue opere. Tra quelle rivelatesi più scomode alla posizione del governo messicano post-rivoluzionario troviamo sicuramente Rosauro Castro, pellicola distribuita 1950. Il motivo dell’astio da parte dell’istituzione governativa nei confronti di questo film risiede nella visione del regista che emerge dalla narrazione degli eventi e soprattutto dalla caratterizzazione di alcuni personaggi.

Su tutti svetta quello del protagonista, Rosauro Castro appunto, interpretato da Pedro Armendáriz, uno degli attori più popolari dell’epoca. Egli è a tutti gli effetti quello che nell’America latina viene definito un “cacique”, ovvero un leader politico dispotico e violento. Definizione che all’interno del contesto messicano assume l’aggravante di essere riferita ad ex fautori della Rivoluzione, lasciatisi poi corrompere dal potere conquistato. Rosauro Castro è quindi un guerrigliero che al termine della rivolta non è riuscito ad opporsi alla corruzione provocata dalla sua nuova condizione, diventando egli stesso un tiranno all’interno della piccola città rurale che fa da sfondo alla vicenda. È facile intuire come una tematica di questo tipo potesse apparire oltremodo scomoda ad un governo le cui fondamenta poggiavano proprio sull’esito della Rivoluzione Messicana.

La forma tramite la quale Galvadòn presenta questi contenuti allo spettatore è quella di un’opera ibrida, che assume le vesti del western nordamericano classico per poi dare vita ad una narrazione torbida che acquisisce caratteristiche più vicine a quelle del Noir. Non a caso alla sceneggiatura troviamo Josè Revueltas, agguerrito socialista che avviò la propria esperienza come redattore di articoli di cronaca nera.
Ciò che, infine, lo spettatore si trova di fronte è il racconto di una singola giornata nell’arco della quale il protagonista vedrà vacillare il proprio ruolo di dominanza all’interno di questo microcosmo in cui bene e male sono in costante conflitto. Una storia dai risvolti amari che mostra come la tirannia si possa sempre rivelare un’arma a doppio taglio.