Al tramonto del Neorealismo, il ventenne Giuliano Montaldo debutta come attore, doppiato nientemeno che da Gualtiero De Angelis. Esordio di Carlo Lizzani, Achtung! Banditi! (1951) rievoca la resistenza ligure ed è uno dei vertici dell’avventuroso “cinema delle cooperative”. Da Michele Placido a Nanni Moretti fino a Francesco Bruni, in molti l’hanno voluto davanti alla macchina da presa, riconoscendogli il prestigio di un affabile padre nobile. Di Montaldo, il più prolifico Lizzani è il mentore: le loro filmografie si somigliano per una narrazione storica in cui la tensione morale collima con quella drammaturgica. Entrambi, nel solco del magistero di Giuseppe De Santis, agiscono in parallelo con Gillo Pontecorvo ed Elio Petri; e di costoro Montaldo fu aiuto regista nei rispettivi debutti, La grande strada azzurra (1957) e L’assassino (1961). Eppure, forse, di questo regista, quanto pochi dentro la storia del cinema italiano e capace di passare dal grande affresco all’episodio emblematico, non si ricordano mai abbastanza due questioni nodali.

La prima è la genovesità. L’accomuna a Giuliani G. De Negri, il partigiano nato produttore con Lizzani e sodale dei fratelli Taviani. E, curiosamente, a Pietro Germi: “registi all’americana”, inciampati nei contraccolpi dell’egemonia culturale, come dimostrano le critiche a Tiro al piccione (1961), coraggiosa opera prima tratta dalle memorie del repubblichino Giose Rimanelli. La seconda è l’esperienza televisiva: accanto a Verdi (Renato Castellani, 1981) e Cristoforo Colombo (Alberto Lattuada, 1984), Marco Polo (1982-’83) può essere considerato l’apice del rinnovamento dello sceneggiato italiano che ha visto protagonisti registi di cinema, chiamati a dirigere kolossal destinati a vasta eco internazionale. Ricordare le coordinate di un comunista senza tessera e disponibile alle possibilità didattico-spettacolari del mezzo televisivo appare utile per arrivare a Sacco e Vanzetti (1971), film che è anzitutto una lezione di storia coi codici dello spettacolo popolare.

Sacco e Vanzetti recupera la vergognosa vicenda di due anarchici italiani accusati di rapina ed omicidio e condannati a morte da una giuria iniqua e disgraziatamente condizionata da pregiudizi razziali e politici, nel decennio dominato dalla repressione contro i sospettati di anarchia. Apologo educativo e coinvolgente, è incastonato tra due film coi quali costituisce una sorta di trittico sul processo ingiusto: Gott mit uns (1969), che racconta quello sommario contro due disertori poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale; e Giordano Bruno (1973), sullo scontro tra l’Inquisizione e il filosofo. In più, con il richiamo alla morte dell’anarchico Andrea Salsedo, precipitato dal 14° piano del palazzo del Fbi nel 1920, si sottolinea quanto il corpo di Giuseppe Pinelli resti centrale nel cinema del periodo (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Petri, 1970). Dentro il filone del film storico, lo spirito del ’68 si estende per diffondere messaggi forti ed inequivocabili, mentre nella società la contestazione va assumendo caratteri più inquietanti: pensiamo a Galileo (Liliana Cavani, 1968), Queimada (Pontecorvo, 1969), Allonsanfàn (Paolo e Vittorio Taviani, 1974).

Il successo del film – complice anche la memorabile Here’s To You di Joan Baez ed Ennio Morricone – fu coronato quando, nel 1977, il governatore del Massachusetts, Michael Dukakis, riabilitò i due martiri. A Montaldo, eretico esploratore della memoria, si deve dunque il riscatto della memoria dall’oblio, permettendo alla cronaca di una morte dimenticata la possibilità di farsi storia attraverso una regia dove tutto è teso a rendere omaggio al sacrificio. Se Gian Maria Volontè garantisce il suo carisma ad un uomo fiero e combattivo, Riccardo Cucciolla (premiato a Cannes) è francamente impressionante per come sa consumarsi nel corso della tragedia, cosciente dello statuto di vittima designata.