Una giovane donna entra in una stanza d'albergo, dove un giovane uomo la aspetta. Pare si conoscano per la prima volta, si tratta di un incontro di lavoro. Dopo pochi minuti però, la conversazione piega inesplicabilmente verso lo straniato e il bizzarro, sino a quando lui rimprovera lei di avere sbagliato, di essersi discostata troppo dal copione che le aveva fornito. Così ora l'interazione ricomincia, con lei che lo domina e lui che si sottomette, ma non possiamo più sapere fino a che punto siamo ancora dentro lo script del gioco erotico oppure fuori.

In fondo è tutto qui Sanctuary – Lui fa il gioco. Lei fa le regole. di Zachary Wigon, una messa in scena (a vari livelli) della disparità del potere in cui, come già nel manifesto modello primigenio Secretary di Steven Shainberg, non è affatto facile comprendere chi lo detenga veramente. Lui è uomo (aspetto non indifferente nella società odierna), ricco, e colui che paga in quella stanza d'albergo; lei ha dalla sua una personalità forte, certamente, ma soprattutto la comprensione e il governo dei bisogni profondi di lui.

E mentre lo vessa e lo umilia nel loro mondo chiuso, chi può dire se stia indebolendo la sua autostima o invece sorprendentemente rafforzandola, rassicurandolo sul fatto che possa resistere a tutte le responsabilità che lo attendono là fuori? Sanctuary è manifestamente divertente e intrigante proprio per questa volontà deliberata di sovvertire a livello micro, in uno spazio iper-privato, l'ordine costituito, spiazzando a più riprese lo spettatore sulla dinamica dei due protagonisti.

Se è vero che ci troviamo di fronte a un film chiaramente trainato dalla sceneggiatura (di Micah Bloomberg) e dalle prove attoriali – in primis la magnetica Margaret Qualley, ma anche il buon Christopher Abbott, che sembra evolvere il ruolo del fidanzato bastonato di Girls – è anche vero che questo kammerspiel viene dinamizzato da scelte registiche convincenti. Wigon si muove nell'ambientazione angusta con una certa grazia, esplorando angolature inaspettate senza strafare, in un setting fra il raccolto e il cupo, utilizzando ottiche lievemente deformanti sui volti e una colonna sonora acidula: il tutto per creare un certo sottile disagio, ma non troppo.

E così diventa difficile capire dove si stia andando a parare, se si stia assistendo a un thriller psicologico/erotico, a un sardonico dramma sentimentale o a un'anomala commedia romantica (la soluzione arriverà, ma rivelarla significherebbe guastare il finale). Ed è forse in questo sfacciato rompicapo che Sanctuary trova la sua cifra più distintiva, dato che lo sviluppo narrativo ricalca molti aspetti del già citato Secretary e la suggestione sulla camera da letto come luogo di verità psicologica suprema, spaventosa da affrontare, è già stata toccata in varie altre sedi, da Ultimo tango a Parigi a Una relazione privata.

Qui l'imbeccata peculiare sta proprio in quel “sanctuary” del titolo, il “rifugio” che è sia la safe word con la quale il gioco può essere interrotto quando il clima si è fatto troppo pesante, sia anche quello spazio privato salvifico che i due protagonisti hanno creato rispetto ai comandamenti esterni del mondo. E, suggerisce un finale che a suo modo è l'happy ending più enfatico possa esistere, perché non osare portare quel sovvertimento nella sfera pubblica.