Caposaldo del movimento L. A. Rebellion, storicamente inserito nel gruppo di giovani autori afroamericani del New Black Cinema che – usciti dai corsi di cinema delle università americane attorno agli anni Ottanta – volevano rivoluzionare il modo di raccontare gli afroamericani sul grande schermo propinato da Hollywood, Sankofa risulta ancora oggi una pietra miliare del cinema internazionale.

Auto-distribuito al momento dell’uscita dall’autore Haile Gerima, oggi il film gode di nuova vita grazie alla società di distribuzione Array della cineasta Ava DuVernay che ne ha curato un restauro in 4K disponibile anche su Netflix consentendo così a un pubblico ben più ampio di conoscere l’opera più rinomata del regista di origini etiopi naturalizzato americano.

Frutto di una ricerca ventennale sull’argomento, il lungometraggio racconta la schiavitù africana negli Stati Uniti dal punto di vista degli schiavi in una sorta di compendio del ribattezzato Maafa, “l’Olocausto nero” che provocò circa 10 milioni di vittime nella sola tratta atlantica. Evitando la narrazione violenta ed esibita delle atrocità subite dai deportati tipica del genere slaveploitation (Mandingo o Drum, l’ultimo mandingo) o del mondo movie Addio Zio Tom, Gerima pone l’accento sulla perdita di identità e coscienza razziale di alcuni e la resistenza fisica e culturale di altri all’oppressione bianca. Tutto ruota attorno al costante dualismo tra queste forze, in un conflitto vissuto a livello interiore che esteriore nei frequenti scontri tra stessi schiavi.

Ne sono esempio i personaggi principali come Joe, lo schiavo meticcio figlio illegittimo di un predicatore bianco che ne ha traviato la fede fino a renderlo incapace di relazionarsi coi propri compagni di sventura, tra cui la madre Nunu e il riottoso Shango. La prima, donna forte e tenace che tramanda e custodisce le tradizioni ed esperienze africane tra i giovani della piantagione Lafayette, attraverso racconti allegorici e rituali clandestini punibili anche con la morte; il secondo a capo di un gruppo di riottosi che aspetta il momento opportuno per sollevarsi contro i padroni e conquistare la libertà.  Tra queste istanze si muove la protagonista Shola, schiava domestica la cui posizione rende più morbida verso i superiori ma l’amore per Shango porta in definitiva a prendere coscienza della propria identità e a seguirlo in un estremo tentativo di ribellione e di fuga.

Ma quello del regista non vuole essere un semplice racconto del passato, la celebrazione di un evento ormai superato e circoscritto nel tempo. Il titolo stesso del film è un termine akan che significa  “ritornare al passato e rivolgersi al futuro” e in questa direzione vanno il prologo e l’epilogo del film, ambientati nel presente sulle coste del Ghana dove la top-model afroamericana Mona è impegnata in un set fotografico presso il “castello degli schiavi” di Cape Coast.

Il rituale di cui è vittima e che la fa viaggiare nel tempo reincarnandosi in Shola e poi tornare all’oggi forte di un nuovo legame con gli antenati, non è che un metaforico invito alla riscoperta e tutela delle proprie radici rivolto in particolare ai giovani discendenti dei popoli africani, troppo spesso vittime di un inconscio oblio che porta a dimenticare o ignorare il passato comune. Non sorprende dunque che Mona sia una modella, donna il cui corpo è venduto/usato per pubblicità, sfruttato da un’industria che lo manipola a proprio vantaggio rendendolo merce a sua volta in una forma non poi tanto dissimile da quella applicata dagli schiavisti ai propri prigionieri.

Gerima apre allora una finestra sul tempo e la storia esprimendo la necessità di conoscere il passato per comprendere il presente.