“Una donna! Si è innamorato...”
“No, no, no, no..io sapevo che è del mare che si era innamorato...”
“Stessa storia diverse versioni, e sono vere tutte! Sì, parliamo di una donna, volubile, e crudele, e indomabile come il mare...”
Per quanto bellissime, le parole di un grande blockbuster hollywoodiano non sembrerebbero le più appropriate per iniziare la recensione di un piccolo e ieratico film “da festival” ambientato nella foresta amazzonica di inizio novecento. Si dà però il caso che Selva tràgica e Pirati dei Caraibi – la maledizione del forziere fantasma (2005) condividano, fra loro e con cento altri racconti, una stessa matrice mitologica, legata alle suggestioni di un’idea di femminilità ancestrale e pericolosa. Come il personaggio della strega creola Tia Dalma (in realtà vera e propria dea in una prigione di carne) stringeva la grande avventura digitale di Verbinski in un brivido pànico, gettando con la sua malia radici ben più remote rispetto al XVIII secolo di quelle avventure piratesche, così la morenita protagonista del film di Yulene Olaizola riporta le lancette del conflitto fra i sessi a un’epoca pre-moderna, pre-civile, addirittura pre-istorica.
Tia Dalma/Calipso, la Donna, era il Mare; Agnes, la Donna, è la Selva, raccontata in voice over da una tremante voce maschile in lingua Maya. La selva che dà i suoi frutti ma anche la morte, dipinta nel folklore precolombiano come una figura femminile sovraumana di fascino paragonabile solo al suo pericolo. Come tante streghe del cinema contemporaneo (da The VVitch al Suspiria di Guadagnino) mostra inizialmente un volto inerme: quello di una ragazzina spaventata, a giudicare dal vestito di lino bianco probabilmente una domestica, che insieme ad altri due fuggitivi si inoltra nella giungla al confine fra Messico e Honduras britannico (oggi Belize) inseguita con cani e fucili dal suo padrone inglese. Insieme a lei c’è un’altra donna, una seduttrice abituata a concedersi agli uomini in cambio di vantaggi e favori. “Perchè non hai accettato di sposarlo?” chiede ad Agnes alludendo al padrone. “Con un attimo di sottomissione potevi comandarlo per tutta la vita”.
Agnes nega, ma quando in seguito cade prigioniera di un gruppo di raccoglitori di gomma, la profezia dell’altra donna (se di “altra” si può parlare in un film sulla Donna in sé, forza naturale e principio cosmico) si avvera. Gli uomini deturpano la selva, sfregiano i suoi alberi e la derubano del suo frutto resinoso, ma ogni tanto la fune che li tiene sospesi a venti metri da terra si spezza precipitandoli al suolo, dove se li prende un giaguaro o li ricoprono le formiche legionarie. Allo stesso modo le precauzioni prese all’inizio contro il desiderio sessuale saltano, gli uomini violano la ragazza uno dopo l’altra usandola per il proprio piacere. Ma la loro è solo un’illusione di controllo, e la selva presto o tardi presenta il conto: decimati e sempre più in preda al panico, non riusciranno a scalfire la maschera imperturbabile di Agnes; come in I prigionieri dell’oceano di Hitchcock il prigioniero debole e in minoranza sembra trarre giovamento dalla stessa furia degli elementi che piaga i suoi carcerieri, e un po’ alla volta passa impercettibilmente in vantaggio.
Col suo dualismo arcaico e misterioso, il film di Olaizola espande la già ricchissima galleria dei ritratti femminili di questa edizione della Mostra, ricordandoci che le vie per la ricodificazione dei ruoli di genere sono infinite, e se necessario (come dimostrano proprio gli esempi di Eggers e Guadagnino) possono benissimo inserirsi nel solco di concezioni apparentemente svilenti e inattuali, sfruttarne il fascino, rivendicarne per sé la potenza immaginifica.