Una corrente raciniana aleggia su questo melodramma di Teinosuke Kinugasa del 1958 ambientato durante il periodo Meiji e tratto da un romanzo di Kyoka Izumi (la cui opera è stata una miniera per il cinema giapponese: si contano adattamenti firmati Mizoguchi, Ichikawa, Shinoda, Terayama, Suzuki, Miike). Fujiko Yamamoto, già Miss Giappone 1950, infonde un candore talmente spiritato da suscitare qualche brivido di malizia alla giovane Oshino, prima cameriera in una sala da tè poi geisha per aiutare la famiglia in bancarotta: il cugino piantagrane Yokichi vuole sposarla, Gosaka, notabile lubrico, possederla, il romantico (e un po’ moralista) pittore Junichi solo amarla – nonostante la figlia malaticcia del suo maestro ne attenda le visite con palpitazione. Seguono, conditi da innumerevoli tazze di sakè, intrighi matrimoniali, grandi speranze erotiche, intromissioni familiari, idilli cameristici, molte telefonate sospettose, una scazzottata e, infine, l’incombente sacrificio muliebre.

Questa notevole densità narrativa, scandita da piani molto brevi, è tuttavia rarefatta dal formalismo delle inquadrature e dalla totale staticità della macchina da presa, che inchioda le esitazioni sentimentali dei personaggi agli interni ortogonali tipici dell’architettura giapponese, come fossero anche quelle parte della dettagliatissima ricostruzione storica degli edifici e dei costumi. E a livello iconografico e coloristico lo sono, dato che la prossemica complementare di Oshino e Junichi risponde alle stesse proporzioni del tatami e delle pareti di carta traslucida delle abitazioni tradizionali o dei locali dove i due si danno appuntamento. Tutto, per la società giapponese, è sottomesso alla geometria paralizzante della cerimonia, anche l’amore, intrappolato nella gabbia delle intelaiature domestiche come l’uccello immacolato del titolo nella cornice di un quadro (la somiglianza ornitologica e l’eleganza del tratto fanno venire in mente la Gru infreddolita del mangaka Kazuo Kamimura, altra dolorosa storia di una geisha).

Se nel sontuoso e marziale La porta dell’inferno aveva usato i carrelli laterali per imitare lo srotolarsi di un emakimono, cinque anni dopo Kinugasa riesce magistralmente a portare in Shirasagi lo sfumato della pittura nipponica e un certo lirismo naturalistico di contorno, ottenuto attraverso la punteggiatura vegetale dei cortili e le ruote dei risciò parcheggiati che ritmano i margini delle inquadrature notturne. Bandito ogni movimento di macchina, la sintassi visiva è affidata completamente alla profondità di campo, che in questo film raggiunge livelli di significato inauditi.

Trovando diagonali impensabili, ritagliando le figure all’interno delle finestre e sfruttando con intuito formidabile tanto i corridoi quanto le strade, Kinugasa inventa ambienti in sostanza inesistenti dove i protagonisti si inginocchiano e si inseguono senza accorgersi di abitare uno spazio fantasmatico. Quando finalmente un fantasma appare, reggendo in mano un profetico pettine spezzato, si disvela il carattere tragico e mortifero dell’intera scenografia; e nella scena successiva la macchina da presa compie il suo unico movimento verso una libertà impossibile (la finestra aperta sulla processione, ancora una cerimonia), allontanandosi da uno spillone insanguinato. È l’oggetto della trafittura, atto cruciale del cinema di Kinugasa, che cerca sempre di trapassare le immagini per scoprirvi dietro, in lontananza, il loro fondamento invisibile.