Il film di Meryem Benm’Barek, vincitore del premio per la miglior sceneggiatura a Cannes 2018, racconta di Sofia, una giovane marocchina di Casablanca, costretta a confessare ai genitori di avere dato alla luce un figlio fuori dal matrimonio. Per evitare il carcere, a causa dell’intransigenza della legge, la ragazza cerca di salvarsi sposando Omar, il reticente padre che abita nel quartiere popolare di Derb Sultan, grazie all’aiuto della ricca cugina Lena. Misurare la realtà partendo dall’esposizione ordinata e lineare degli eventi è l’obiettivo che si pone, in ottica sociologica, la regista esordiente Meryem Benm’Barek, originaria del Marocco e cresciuta in Belgio.

Prendendo spunto dai suoi modelli registici, Cristian Mungiu e Asghar Farhadi su tutti, e sviluppando quei campi e controcampi colmi di significato che l’avvicinano al Kechiche di La Vita di Adele – bastano quelli a ritrarre la differenza di classe e a mappare il territorio di Casablanca lacerato da conflitti sociali endemici – la cineasta racconta l’autodeterminazione dell’individuo come reazione strategica e pianificata all’oppressione prodotta dalla comunità patriarcale. Il metodo Benm’Barek, basato su una fredda e meticolosa analisi dei contesti socio-culturali, lascia fuori campo gli psicologismi di maniera e non concede quasi mai l’enfasi emotiva e sentimentale ai suoi personaggi, demandando il compito di sottolinearne gli stati d’animo e la loro soggettività alla camera a mano.

Nel tentativo di dare corpo ad una critica sociale che muova dalla difficile condizione della donna, costretta al diniego di gravidanza dalla legge 490 del codice penale marocchino e che giunga a raccontare l’abisso che separa le élite dai ceti popolari, Sofia rappresenta, in appena 85 minuti, un complesso meccanismo a scatole cinesi nel quale una piaga sociale ne contiene un’altra, questa un’altra ancora e così via. Pur esponendo un racconto a tesi nel quale convivono forti dicotomie e precise classificazioni oppositive – di genere, di classe, territoriali ed etno-linguistiche – la regista scioglie ogni polarizzazione culturale facendoci prima presentire, grazie ad un dramma sociale che vira verso il thriller d’atmosfera, e poi svelandoci senza infingimenti, le trasformazioni dei personaggi e i loro ruoli intercambiabili di vittime e carnefici, grazie ad una messa in scena trasparente che ci fa percepire sottotraccia l’opacità della morale collettiva.

È un po’ l’opposto dell’assunto wellsiano del “paese dei ciechi” poiché in un luogo scisso tra gruppi dominanti e dominati, chi vede più e meglio degli altri non crea il tabù, ma una convenzione che acuisce la lotta di classe, ancora più brutale poiché essa rappresenta l’unico rimedio all’ingerenza normativa e spesso si ritorce contro chi è innocente. Tutto ciò che noi spettatori vediamo, nella limpidezza di un naturalismo registico senza ridondanze e virtuosismi di ripresa, supportato da un registro diretto e colloquiale, ci fa entrare dentro a tale cortocircuito senza farci perdere l’orientamento, grazie alla composizione ben calibrata di un ritratto di famiglia perfettamente messo a fuoco, implacabile nell’esposizione dei conflitti individuali che sono la spia per riflettere e parlare di un intero paese.