Sois belle et tais-toi: sii bella e stai zitta. Delphine Seyrig, volto indimenticato del cinema francese da L'anno scorso a Marienbad in poi, solo nella scelta del titolo del suo documentario si permette di commentare le 23 interviste ad attrici cinematografiche che davanti alla sua cinepresa analizzano il loro ruolo nel sistema produttivo e culturale. Per il resto Seyrig, dopo un'introduzione di sapore nouvelle vague con una mano a mostrare in sequenza  le foto delle protagoniste e una voce fuori campo a declamarne il nome, si limita a porre domande e a lasciar fluire liberamente pensieri, considerazioni ed aneddoti.

C'è, in questa scarnificazione stilistica da camera fissa, un evidente intento programmatico a procedere senza fronzoli confidando nella forza della parola, ma anche un rischio di banalizzazione e incapacità di valorizzare col mezzo cinematografico l'emotività delle storie personali e la forza argomentativa di momenti di brillante acume analitico. A contraltare della piattezza della forma, i quesiti posti dalla Seyrig sono intelligenti, in grado di stimolare riflessioni sentite e – l'espressione è abusata, ma davvero così è – attualissimi.

Per quanto nel 1981 il lascito della seconda ondata femminista fosse già consolidato, è curioso e amaramente divertente vedere affrontati argomenti quali l'assenza dallo schermo di donne che siano amiche fra loro senza rapportarsi unicamente a protagonisti maschili, la difficoltà per attrici di media avvenenza dopo una certa età di vedersi proporre ruoli diversi dall'alcolista o dalla disperata, o l'allora in auge ossessione della New Hollywood per l'amicizia maschile con rappresentazioni così mitiche da far sospettare un inconfessato (auto)innamoramento. Il tutto qualche decennio prima che questi aspetti avessero un nome, e si cominciasse a discettare ampiamente di Test di Bechdel, ageismo, o bromance.

La forza maggiore di Sois belle et tais-toi è però mostrare come per queste 23 professioniste del settore, attrici di varia grandezza e successo ma tutte all'epoca variamente inserite nell'industria cinematografica, la sensazione generale fosse di essere state typecasted nel ruolo dell'accessorio, che fosse la bella conquista di -, la moglie o la madre di -, o l'oggetto del desiderio di -. Il cinema è una grande fantasia maschile, sostenevano, e i buoni ruoli femminili sono 2 o 3 l'anno e vanno alle pochissime star; incisivo che a sostenerlo fossero anche attrici di successo all'epoca come Ellen Burstyn o Louise Fletcher, che avevano vinto l'Oscar proprio in quegli anni, e sorprendente sentirlo confessare da delle A-list di Hollywood come Shirley McLaine e Jane Fonda. Quest'ultima, con l'abituale coraggio che l'ha fatta diventare l'impensata sintesi fra divismo da star system e militanza politica disobbediente, confessa di aver indossato per anni sotto i vestiti delle protesi per ingrandire il seno e ingannare il pubblico, e di aver rischiato di farsi spaccare le mandibole, su suggerimento degli studios, per aderire meglio al perfetto ideale di perfetta fidanzatina d'America.

Difficile trovare scampo per tutte e necessario, come sostenuto da più voci, che a scrivere le parti femminili fossero sceneggiatrici donne, e che il mestiere di regista non venisse considerato appannaggio maschile. Qualche decennio dopo, si sarebbe cominciato a parlare di femminile anche in termini di pubblico pagante, di desideri e di marketing. Ma quello è un esperimento sociale non ancora arrivato a compimento, e forse dovremo prenderci qualche altro anno per fare bilanci.