Challengers è la miglior risposta possibile alla domanda se ci sia arrosto sotto il fumo del cinema di Luca Guadagnino. Un cinema che vive una curiosa dicotomia, fra l’ormai incontestabile capacità del regista di porsi come unico autore italiano davvero “globale” e i dubbi sull’evanescenza di uno stile che ai detrattori sembra spesso meno della somma delle sue parti.

Dove gli aspetti legati al glamour, all’erotizzazione turistica delle location, del cibo, della moda e della danza, che da un lato ne fanno un caso industriale così riuscito, dall’altro sollevano il dubbio sull’esistenza di dimensioni altre rispetto a quella di sofisticate (e a tratti spocchiose) degustazioni porno-culturali.

Con tutto questo il tennis di Challengers è assolutamente in linea. Non per niente Guadagnino sceglie lo sport più aristocratico ed esclusivo, quello dei dress code e delle sponsorizzazioni di lusso - da Rolex a Gucci. Siccome la fortuna aiuta gli audaci, poi, nei mesi di rinvio del film causati dagli scioperi hollywoodiani quella che già era la generazione più promettente di sempre del tennis italiano gli è esplosa letteralmente fra le mani, portando Sinner sul tetto del mondo e aggiungendo ulteriore credito allo status di Guadagnino come portabandiera dell’eccellenza made in Italy all’estero.

La grandezza di Challengers allora sta nella doppia scommessa vinta da un film che, mentre conferma il talento del suo autore nel parlare i linguaggi della moda e del branding, offre anche il saggio ad oggi più convincente delle sue qualità poetiche e di racconto. Dove il fascino seducente che a tratti emanava da tutti i suoi lavori trova definitiva consacrazione in un testo stratificato, stilisticamente audace e soprattutto – a dispetto delle apparenze – di grande autenticità umana ed emotiva.

Che stavolta Guadagnino porti tutto alle estreme conseguenze lo si vede ad esempio nel trattamento dello sport. Detto brutalmente, forse anche perché la concorrenza è poca, Challengers si pone ad oggi come il tennis-film definitivo, la pietra di paragone per tutte le future rappresentazioni cinematografiche dello sport. Del tennis inventa una grammatica filmica (con spunti di messa in scena che vanno dallo spot di profumi all’Anime) postula una filosofia, e procede a metterla in pratica secondo una drammaturgia costruita per cerchi concentrici, con l’inedito rally time della struttura narrativa – che scatta avanti e indietro nel tempo secondo il ritmo di uno scambio – riprodotto in piccolo dalla cinepresa che salta da un interprete all’altro durante i dialoghi.

Ma Challengers è destinato a essere ricordato anche come grande saggio sullo sguardo, in un certo senso sulla spettatorialità, femminile. L’arena entro cui avviene la sfida, prima ancora che il campo da tennis, è quella del female gaze incarnato dal personaggio di Zendaya, la cui soggettività è immediatamente presentata come dominante nella scelta di inquadrature delle prime sequenze.

C’è qualcosa di hitchcockiano in questo: non tanto nel senso di Delitto per delitto (1951) ricordato per l’ambientazione tennistica, e di cui la locandina cita la scena più famosa; ma piuttosto di La finestra sul cortile, di cui il film di Guadagnino in qualche modo ripropone (invertendola però di genere) la messa in azione del personaggio di Grace Kelly come protrusione dello sguardo voyeuristico dell’infortunato James Stewart.

Come sempre il miglior talento di Guadagnino resta quello di un raffinato pornografo, capace di rendere sensuali non solo i corpi dei suoi attori ma anche cibi, paesaggi, vestiario. Da questo dipende la sua affinità così spiccata col mondo dello spot e della pubblicità, dov’è fondamentale il concetto di sex up. Stavolta però – come già in parte in Chiamami col tuo nome – a emergere è la forza poetica latente in questo eccitamento, quella di un vero e proprio inno estatico e vitalistico alla liberazione dei sensi.

Magistrale in questo senso la sequenza notturna del prefinale, scossa da un vento impetuoso e da un’illuminazione antinaturalistica che da un lato sembra guardare a Douglas Sirk, dall’altro rievoca Suspiria con più efficacia di quanto riuscisse a fare in due ore e mezza il suo remake del 2018. È in momenti come questo che il cinema di Guadagnino squarcia il velo del suo appeal più superficiale e modaiolo per gettarsi a capofitto in un godimento pànico che assurge a vera e propria filosofia epicurea, con il sesso come metafora universale di uno sguardo che mira ad abbracciare in tutto il suo potere la magia dell’esistenza.