Il cinema di Guadagnino è un’esperienza sensoriale per iniziati, con caratteristiche esoteriche, che però mira ad ampliare il “circolo” di spettatori/adepti. Challengers è la sfida definitiva ad un immaginario globale di matrice capitalista, che sovente ha origine da Hollywood. In un film in cui i marchi (da Mercedes-Benz a Ray-Ban) del consumismo sono ben visibili, e il mond(an)o tennis è una fiera (delle vanità) eccezionale, qualsiasi dettaglio/particolare contribuisce alla creazione del design (figurativo ma anche sonoro) dell’opera. La star Zendaya è la musa ispiratrice, l’attrice/produttrice e l’attuale giovane brand per eccellenza della “fabbrica dei sogni".
L’egocentrismo del regista, che ancora divide critica e pubblico, è una cifra estetica sempre più riconoscibile/riconosciuta. La sua messa in scena è espressione della propria spiritualità (persino l’outfit ideato insieme a Jonathan Anderson, direttore creativo di LOEWE), la superficie (elegante e preziosamente tattile che evoca il “senso” della bellezza di Visconti o Bertolucci) di ambienti, oggetti, costumi è la pellicula che veste l’animo zen.
La fotografia del thailandese Sayombhu Mukdeeprom (epifanica anche in Chiamami col tuo nome e Suspiria) illumina corpi e strutture per svelare le variazioni spazio-temporali e i cangianti umori dei tre protagonisti, il montaggio di Marco Costa e l’avvolgente tessuto di musiche elettroniche di Trent Reznor & Atticus Ross (le eloquenti note di Compress/Ripress), dettano il ritmo rapsodico, pervasivo dello scorrere delle emozioni.
La trama ludica, basica del percorso di formazione umana e sentimentale di due uomini (Art e Patrick) e una donna (Tashi) che si svolge in ambito tennistico non può che essere un brillante espediente narrativo per esibire le magnifiche ossessioni di Guadagnino (paradigmatiche nel “sospirato”, ingannevole, falso remake del capolavoro di Dario Argento): le forme psicanalitiche, le trasformazioni alchemiche, le ritualità e le mutazioni antropologiche, l’elaborazione mnestica.
Il triangolo (rettangolo è il terreno di gioco ed equilatero è il simbolico agognato finale) è la dimensione (in)finita di Challengers, la misura della (ri)costruzione dei rapporti tra personaggi alla ricerca del (perduto) sé. Il riconoscimento dell’altro chiude il processo di affermazione identitaria: Art è l’Io (l’algida coscienza di virtù e limiti, pronto a migliorare le personali prestazioni), Patrick è l’Es (il fuoco della passione, l’inconscio preda delle incontrollabili pulsioni, destinato a fallire), Tashi è il Super-Io (ha una funzione sovrastante, educativa, decisionale e, simile a D-io, è amata incondizionatamente).
Genialmente Guadagnino attribuisce a Tashi il ruolo di Deus ex machina, visibile ai nostri occhi ma, in una suggestiva ipotesi (confermata da un fulmineo/folgorante fotogramma che la rende un fantasma), invisibile per Art e Patrick, atleti sessualmente ambigui (significativa la sequenza in cui i due si baciano come se Tashi non ci fosse). La sensazione è che la seducente “sciamana” Zendaya sia la proiezione della parte femminile di entrambi che non riescono ad accettare la loro omosessualità (classica castrante situazione di certi soggetti di De Palma).
C’è qualcosa di trascendente sin dalle battute iniziali in quei volti sudati e invasati, tra brusche accelerazioni e improvvisi ralenti. Ricordano gli sportivi posseduti da un demone dei manga giapponesi (Tashi, con i suoi meta-fisici colpi somiglia a Jenny la tennista, eroina di uno shojo-spokon della fumettista Sumika Yamamoto che, a fine carriera, si è dedicata al buddismo).
Ma il vero spettacolo è il campo da tennis, teatro di singolari e collettive performance che partecipano ad un rito regolato da convenzioni comportamentali come in una sala cinematografica o da ballo (con spiriti danzanti). Non sfugge allo sguardo del cineasta palermitano, nonostante il respiro internazionale della sua arte, la magica meridionale liturgia insita nell’idea di rappresentazione, tipica di ancestrali credenze popolari, in cui il totale degli elementi che la compongono è superiore alla semplice somma degli stessi. Una volta immersi in quella cosmologia nulla è più statico, la mente forgia le membra in un rinnovato moto di consapevolezza.
Naturalmente ogni cerimonia o culto necessita di canti che scandiscono atti e fasi, contrappuntano il verbo in un originale pattern acustico, in questo caso si possono ascoltare brani (in armonia con i dialoghi) che suonano da biografica colonna sonora di Guadagnino: Pensiero stupendo di Patty Pravo (il triangolo in musica), Suspicious Minds dei Fine Young Cannibals, Tunnel of Love di Bruce Springsteen e Time Will Crawl di David Bowie (il rock e il glamour giovanile degli anni '80), Pecado di Caetano Veloso (il sensibile e maturo cantautorato brasiliano negli anni '90) fino alla “easytronica" del nuovo millennio con gli Air e i Paradis (la contemporaneità).
La memoria del passato e il suo “eterno ritorno” scolpiscono la materia del lungometraggio e il vento impetuoso imprime nella pellicola le sembianze scultoree di Patrick e Tashi. Sono attimi fuggenti prima della resa dei conti tra Patrick e Art: tutto sembra finire eppure è solo l’inizio. Come On!