Per mettere a fuoco France, l'ultimo film di Bruno Dumont presentato al Festival di Cannes, tentando di coglierne la complessità che va oltre la convenzionale critica al giornalismo e al sistema mediatico, può essere opportuno iniziare riflettendo su Purple Sea, un documentario uscito in sordina ma socialmente e artisticamente rilevante, realizzato da Amel Alzakout e Khaled Abdulwahed e disponibile su MUBI. Due opere apparentemente molto diverse tra di loro, che trovano una forte congiunzione nel tema dello sguardo e dell'immagine nel contemporaneo. Quell'immagine che diventa sempre più artefatta, spettacolarizzata ed edulcorata, incapace di legarsi alla realtà e ai drammi che si prefigge di mostrare.
Purple Sea è un documentario sorprendente, che tra astrazione e videoarte recide totalmente quella distanza rassicurante tra l'immagine e il reale e lo fa disgregando l'immagine stessa, mostrando il naufragio di alcuni migranti nel Mediterraneo dall'interno dell'acqua e in continuo movimento, senza più coordinate visive. Il film di Dumont origina da un presupposto concettualmente simile, trasportato nel campo mediatico e giornalistico e fornendo dunque un controcampo ideale del documentario di Alzakout e Abdulwahed. Enunciato ed enunciazione, in due film usciti a breve distanza l'uno dall'altro.
Dopo il dittico su Giovanna d'Arco, composto da Jeannette e Jeanne, Bruno Dumont torna a ritrarre un personaggio femminile che diventa simbolo della Francia, in questo caso assumendone direttamente il nome. La protagonista si chiama infatti France, interpretata da Léa Seydoux, ed è la giornalista più famosa e amata del paese, tanto da essere diventata una star e da oscurare persino il presidente Macron durante una conferenza stampa all'Eliseo. Conduce un programma di informazione in cui modera dibattiti politici e mostra i reportage da lei stessa realizzati in zone di guerra.
Con la sola presentazione del personaggio e del suo ambito lavorativo, Dumont mette in scena la società delle immagini francese, e per estensione occidentale, che crea icone persino nel giornalismo e si compone di circhi mediatici che si nutrono di fama, audience e spettacolarizzazione, dai quali è impossibile sottrarsi. D'altronde il cognome di France è de Meurs, che si pronuncia allo stesso modo di mœurs (traducibile con "i costumi"), chiudendo il cerchio nominale del riferimento alla Francia e alle sue abitudini sociali.
Una società (e un'immagine) la cui percezione è ammantata e modellata dalla finzione e che è sempre meno capace di misurarsi con la realtà. I feroci dibattiti, dunque, altro non sono che show, al termine dei quali i politici contendenti svestono i panni da boxeur allontanandosi amichevolmente, e i reportage sono pensati e costruiti come se fossero un film.
France tenta di sottrarsi a questo declino estetizzante e narcisistico dopo aver incidentalmente investito, senza gravi conseguenze, un giovane rider. L'evento, come un'epifania, squarcia il velo che la circondava e la pone di fronte a una prospettiva diversa, causandole un turbamento esistenziale simile a quello provato dalla giovane Giovanna d'Arco in Jeannette.
E come lei, guarda verso il cielo, in attesa di risposte. Ma i tentativi di lenire la propria anima, ricercando nuovi affetti e abbandonando le luci dei riflettori, si rivelano vani e viene di nuovo risucchiata dallo spettacolo. Non rimane che l'accettazione, che emerge soprattutto nell'amaro finale e che si collega a un'altra possibile traduzione del cognome de Meurs, legata allo spirito funereo che pervade il film, a partire dalla casa-mausoleo in cui abita France.
Al centro di tutto rimane l'immagine, continuamente rilanciata e piegata alla finzione. Non c'è più differenza tra televisione, ripresa del reale e cinema. France nella realizzazione dei servizi giornalistici si trasforma in una vera e propria regista, coordinando al grido di "azione" i movimenti dei soldati intervistati e girando i controcampi da inserire nel montaggio finale, tramite il quale plasma la propria narrazione.
Ma laddove Purple Sea reagisce respingendo ogni traccia di artificio per creare una nuova immagine, Bruno Dumont in France fa uso di quella stessa finzione su cui riflette e la porta all'estremo, in un gioco metalinguistico. Vediamo quindi effetti di montaggio che permettono alla protagonista di rivolgersi direttamente a Macron, l'utilizzo dei trasparenti per le scene in auto, fino ad arrivare alla scena più drammatica girata come se fosse un action hollywoodiano.
Ogni singolo aspetto vive nel volto di Léa Seydoux. Dumont ne fa espressione del panorama che racconta, attratto dal suo sguardo così come France è attratta dai riflettori. Quel volto che prima dell'incidente mostrava inscalfibile sicurezza e che subito dopo sembra andare in frantumi, specchio del suo sentire, rigato da lacrime continue e deformato da smorfie di dolore, in bagliori di tenerezza.