France de Meurs è la conduttrice di uno dei programmi di attualità più famosi di Francia. È una star, la paladina di un’intera nazione (di cui è omonima), un’artista (dice la sua assistente), autrice e attrice protagonista di un intero immaginario giornalistico televisivo nazionale. France è perfettamente accordata con quella macchina giornalistica che crea piuttosto che mostrare. Sa cosa fa presa sul pubblico. Nelle zone di guerra mette in scena, dirige, fa recitare. Dovrebbe occuparsi del contenuto, ma si dedica solo alla forma.

Nella confusa, ma allo stesso tempo autosufficiente, società dello spettacolo, la donna si muove completamente assestata tra le fila del grande sistema-formichiere. Fino a quando, dal nulla, un incidente di piccola gravità la fa deragliare. Da qui, il cortocircuito. E se la retorica della ripugnanza – quella di cui parla Susan Sontag nel saggio Davanti al dolore degli altri a proposito delle immagini di guerra – diventasse vera ripugnanza? Se l’incapacità di fare emotivamente propria la realtà messa in scena diventasse rinnovata empatia? Se l’infinito meccanismo che autoalimenta la realtà e la sua rappresentazione, rendendole sempre più simili, diventasse un contesto estraneo per la protagonista?

Bisogna dire da subito, però, che France non è la storia di una giornalista che, da un momento all’altro, perde l’anestetizzante e asettica familiarità con l’immagine di guerra e si trova a dover fare i conti con un dolore originario. È piuttosto un film su un nuovo dolore, sull’incapacità di rapportarsi – emotivamente e socialmente – alle immagini e alla realtà, di distinguerle; l’incapacità di dare un “peso” alle cose, quanto di riconoscerle.

Dopo un continuativo sguardo ironico e dissacrante alla Francia rurale del nord – inaugurato nel 2014 con la miniserie P’tit Quinquin e, per ora, conclusosi con la copia di film su Giovanna D’Arco (Jeannette e Jeanne) – Bruno Dumont realizza un’opera di grande intelligenza cinematografica, uno sguardo complesso e anti-retorico sulla Francia dei media e delle immagini. Mette in scena il mondo del giornalismo disinteressandosi, come la stessa protagonista, dei contenuti (ogni volta che si scende nel merito del discorso politico, il regista devia, creando e osservando un secondo piano di dialogo o di sguardi), costruendo un intricato sistema di finzioni e rappresentazioni, sia testuale (France è allo stesso tempo autrice e vittima delle immagini) che meta-testuale (si pensi alle grandiose inquadrature degli interni delle automobili dove le strade di Parigi, visibili fuori dal finestrino, si proiettano ripetutamente in un loop infinito, con stacco di montaggio annesso).

Ma la Francia di questo Dumont è anche un nome. France, in un certo senso, è un “film-personaggio”, incentrato su un’unica figura che si sviscera in due dimensioni: quella della celebrità (ricorda le figure del potere del cinema di Brady Corbet, in particolare Vox Lux) e quella del personaggio femminile, in qualche modo, politicamente sabotatore (si pensi alle donne del cinema di Pablo Larraín, a Ema, ma soprattutto a Spencer). Un’icona. Una celebrità dall’emotività altalenante – restituita da una grandissima performance di Léa Seydoux in una delle sue migliori interpretazioni di sempre – di fronte allo scollamento e al confronto con una realtà inesistente o impercepibile.

Così come il programma televisivo è tutto costruito intorno a lei, France è anche l’immagine del film stesso. E se può sembrare che Dumont crei una distanza tra i due media – sia da un punto di vista morale che linguistico – in verità, nella continua finzione, nel ritorno degli sguardi in camera della Seydoux e dei primi piani, sembra quasi che il film appartenga alla protagonista, intitolato col suo nome, come uno dei suoi servizi televisivi. Ed è ancora la forma che prevale sul contenuto, ma se per la TV è la via per raggirare la realtà, per il cinema è manifesta invenzione. Usando McLuhan: il medium, ripete Dumont, è sempre il messaggio.