Alla seconda prova dietro la macchina da presa, Jordan Peele sembra voler ampliare e stratificare la sua analisi della società americana attraverso la metafora socio-politica dell’horror. Rimane però vittima del suo stesso desiderio perché addentrandosi troppo nel labirinto di una contrapposizione tra un “noi” e un “loro” dalle molteplici definizioni e sfaccettature, perde il filo di Arianna, producendo una sceneggiatura carente di coerenza sotto molti aspetti e una narrazione ambigua oltre le intenzioni.

Horror per certi versi atipico (anche se ormai, data la quantità di horror atipici, è in corso una nuova “tipizzazione” del genere), Noi funziona infatti assai meno sul piano narrativo che su quello tematico. Se la suspense resta alta nella prima parte del film, specialmente nel prologo ambientato nel 1986, dove la regia ad altezza di bambina e l’eccellente fotografia di Mike Gioulakis restituiscono perfettamente la visione soggettiva della piccola protagonista, a partire dall’incontro tra le due famiglie il film si trasforma in un racconto abbastanza stereotipato che alterna momenti di violento scontro fisico ad altri di fuga per la salvezza. Pur rimanendo nel solco della sua poetica personale di mescolamento di dramma e comicità, Peele non riesce ad ottenere in quest’opera quell’armonia compositiva generale che aveva reso Get Out un horror assai più convincente e originale.

Qui infatti la parte citazionista (che dell’horror è ormai uno degli elementi fondamentali) è rilevante al punto da minacciare l’originalità della narrazione stessa. Senza dilungarsi sul tema del doppio, di cui pullula la tradizione del genere (dai vari Dottor Jekyll & Mr. Hyde a Mirrors – Riflessi di paura di Alexandre Aja, per citare due opere di contesti radicalmente differenti), basti chiamare in causa The Strangers di Bryan Bertino (anche il bambino in rosso indossa una maschera, seppur per ovvie altre ragioni, come il suo doppio Jason) per ricordarci altri estranei sul vialetto di casa pronti a invadere la dimora dei protagonisti, in un’aggressione/invasione che richiama le più svariate pellicole, dai morti viventi di Romero a You’re Next di Adam Windgard (ancora maschere!) fino a Them – Loro sono là fuori di David Moreau e Xavier Palud.

Se dunque il film non brilla di originalità, resta però valido il tentativo, sebbene riuscito solo in parte, di porre questioni fondamentali dei nostri tempi attraverso il meccanismo del genere horror, che permette di metaforizzare tematiche, quesiti e risposte. L’incontro tra Red e il suo doppelgänger simboleggia il rapporto con una generica alterità: assumendo come poli del confronto una maggioranza e una minoranza, essa può essere codificata a livello razziale (bianchi vs neri) o economico (ricchi vs poveri). Nel film di Peele questo rapporto è segnato da una fase iniziale di incontro, ostilità e paura dell’ignoto,  a cui segue un momento di affermazione – da parte dell’“altro” – della propria identità, per approdare poi ad un ribaltamento di prospettiva nell’immancabile colpo di scena finale. Se l’ultima fase assolve alle regole del genere, ampliando significativamente la portata della riflessione politico/sociale della storia, è nella parte centrale, nell’incontro tra le due famiglie, che emerge uno degli snodi fondamentali del film: Red, rispondendo alla domanda “Voi chi siete?” afferma: “Siamo americani”, mentre Jason esplicita la situazione con “They’re us” (“Sono noi”).

Dunque gli altri sono noi e hanno pertanto gli stessi desideri e gli stessi diritti della maggioranza. Questo parallelismo è reso perfettamente dalla sequenza della danza delle due bambine sulle note distorte dello Schiaccianoci di Tchajkovskij: ripetizione variata di un’espressione di libertà, che richiama la danza di Suspiria di Guadagnino, rielaborando in chiave umana e politica un desiderio di riconoscimento e di libertà.