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“Wendell & Wild” tra animazione e cinema delle origini

Selick si prende i suoi tempi. Osserva l’evolversi della società, dei costumi, delle mode, del gusto del pubblico e torna in scena quando sente di avere qualcosa di importante da urlare a gran voce, quando avverte che una generazione di spettatori è cresciuta ed è quindi tempo di proporre loro qualcosa di diverso. Ed è proprio su questa doppia sfida che si basa il suo cinema. Un cinema che si nutre di un ossimoro interno coerente ed efficace, un cortocircuito scivoloso e ambizioso da perseguire, ma che l’autore dimostra sempre di saper controllare con grande sapienza e creatività.

“Nope” e l’ossessione della fotogenia – Speciale parte II

Nope, l’ultima magnificente fatica di Jordan Peele, è certamente uno dei migliori film dell’anno, nonché un perfetto punto di partenza per chi non ha ancora avuto il piacere di entrare in contatto con la filmografia dell’autore statunitense. Di converso, gli apprezzatori dei precedenti lavori di Peele ritroveranno il suo stile riconoscibilissimo, tanto nelle idee registiche che nel registro della scrittura, ma un ritmo finora inedito. Rispetto all’incalzante incedere di Scappa e all’altalenante martellamento di Noi, Nope risulta meno denso e più disteso e la scrittura si concentra sul tema portante dell’ossessione per la fotogenia, dell’irrazionale spettacolarizzazione della realtà.

“Nope” di Jordan Peele e la negazione dello sguardo – Speciale parte I

“Non guardare” è il divieto di scrutare la creatura per non esserne vittima. Il legame tra il protagonista e le fiere non è casuale. Da sempre associato a una denigrante idea di brutalità, l’afroamericano ha subito sin dalla schiavitù un trattamento analogo a quello riservato agli animali. Nero e bestia sono stati addomesticati a forza (torna qui il legame con il western, la sua poetica e ideologia) ed entrambi hanno sviluppato un istinto di salvaguardia, un’inaccessibilità che in definitiva li rende imprevedibili e perciò irrimediabilmente pericolosi. 

Say My Name. “Candyman” e lo sfruttamento della cultura nera

Il nuovo Candyman è l’incarnazione del dolore e dei soprusi subiti dagli afroamericani, un inconfessabile e impronunciabile desiderio di vendetta celato a forza nel profondo (le cantine del quartiere) le cui conseguenze altrimenti sarebbero letali. L’antieroe morto nel primo capitolo torna allora a rivivere periodicamente in ogni nero vittimizzato e brutalizzato in primis dalla polizia i cui atteggiamenti faziosi e scorretti sono qui mostrati in tutta la loro crudezza, segno più che mai evidente dell’influenza che #BLM ha assunto non solo sul piano politico e sociale, ma anche e soprattutto culturale. 

Speciale “Noi” di Jordan Peele – III

Peele sa perfettamente quello che vuole dire, sfruttando stilemi del genere (Haneke, su tutti), accompagnandoci nel suo (o nel nostro?) mondo grazie a un sottofondo ironico che stempera e rende più accessibile il film. La danza con lo spettatore che Noi compie è serrata, lasciando noi con un “vuoto di parola”, assorbiti da un binomio immenso e singolo: un popolo aggiogato e una donna nel suo lucido delirio. Animali delusi (e illusi), senza traccia sulla loro stessa terra, guidati, in apparenza, da uno stelo d’erba inerme, arso da un sole al neon. “Vittime, non lo siamo tutti?” direbbe Eric Draven. Ma la protagonista di Noi è Adelchi, non Ermengarda. E, nonostante il volgo disperso un nome riesce, in extremis, ad averlo, alla fine per noi, per tutti noi, non resta che far torto, o patirlo.

Speciale “Noi” di Jordan Peele – II

Se il film non brilla di originalità, resta però valido il tentativo di porre questioni fondamentali dei nostri tempi attraverso il meccanismo del genere horror, che permette di metaforizzare tematiche, quesiti e risposte. L’incontro tra Red e il suo doppelgänger simboleggia il rapporto con una generica alterità: assumendo come poli del confronto una maggioranza e una minoranza, essa può essere codificata a livello razziale (bianchi vs neri) o economico (ricchi vs poveri). Nel film di Peele questo rapporto è segnato da una fase iniziale di incontro, ostilità e paura dell’ignoto,  a cui segue un momento di affermazione – da parte dell’“altro” – della propria identità, per approdare poi ad un ribaltamento di prospettiva nell’immancabile colpo di scena finale.

Speciale “Noi” di Jordan Peele – I

Negli anni in cui l’horror d’oltreoceano attraversa un’incredibile momento di prosperità, contrapponendo blockbuster dagli straripanti successi commerciali a folgoranti ed ardite opere indipendenti, è singolare come Jordan Peele appaia costretto in un limbo collocato da questi due poli. Noi è una creatura difficilmente catalogabile, pervasa da una freschezza di messa in scena che fatica a trovare un atteggiamento parimenti temerario e compatto sul piano della logica narrativa. In un gioco che punta a disorientare, facendo perdere le coordinate dell’azione per poi tirare didascalicamente le fila in conclusione, l’esito può essere più frustrante che appagante; grande limite di un’operazione dal potenziale immenso e dal fascino innegabile, che conferma le qualità del suo artefice nei panni di abile narratore della contemporaneità.

Spike Lee e la new black wave

L’odierna produzione americana vede una sempre più fiorente circolazione di opere inerenti il difficile rapporto tra bianchi e neri su territorio nazionale. Ma se un tempo il punto di vista era quasi esclusivamente quello maggioritario (eccezion fatta per pochi autori che sono riusciti a raggiungere un pubblico crescente e eterogeneo, pur se con risultati altalenanti e comunque non duraturi), oggi nomi quali Lee Daniels, Dee Rees, Barry Jenkins, Ava DuVernay e Jordan Peele sono solo i più noti della new black wave, un ampio gruppo di registi neri riconosciuti e premiati a livello internazionale. Autori che partecipano a festival e riempono le sale con film finalmente sdoganati dal circuito elitario; sono eredi più o meno diretti dell’opera di Spike Lee apripista di una nuova coscienza artistica, etica e al contempo innovatrice nei contenuti quanto nello stile.