C’è un popolo disperso, scavato nelle viscere della Terra. Ne abita i solchi, è immerso nel fango, ma non riesce a vedere le stelle. Siamo… noi? Jordan Peele riavvolge. Riparte. Alza il sipario sul suo cantuccio lirico come un direttore d’orchestra, usando la musica come un bisturi per (ri)aprirci l’ennesima verità sul volto: tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Come prima, più di prima. Un tema forte, attuale, trattato in maniera obliqua, tagliente: Get Out non è stato solo un caso.
Perché “noi” siamo tutti lì: felici e spensierati mentre con la nostra famiglia andiamo in vacanza al mare, e pieni di sangue e cicatrici. Solo che spesso non si vedono. Spesso, non vogliamo vederli, non vogliamo vederci. E se fossero proprio loro a tormentarci la notte? Se decidessero che non possono più restare dentro, chiusi, soffocati, mentre sbranano i resti della nostra vita? Noi decide scientificamente di non fare sconti: oggi non è possibile. Peele si prende il suo tempo, sfruttando carrellate incessanti, che ci inseriscono nel film in maniera lenta e inesorabile, mentre attorno a noi monta una coltre apparentemente informe, sfumata dalle ombre, che diventa poi incendio, pronta a svelare al mondo il suo vero volto. O, almeno, a regalargliene uno nuovo.
La stratificazione (anche orografica) di Noi permette proprio questo: strappare il velo di Maya, ma come farebbe Lucio Fontana. Una verità che erutta nella semplice quotidianità, tra una gita in barca e un premio al luna park. Forse è proprio qui che il film soffre, come già Get Out prima di lui. L’idea che si mangia la realizzazione. La mescolanza tra universalità del tema e universalità della messa in scena. Noi zoppica negli snodi di trama più tecnici, dove molto viene consegnato a un canonico “spiegone”, quando la potenza delle immagini dovrebbe prevalere. Ma Peele sa perfettamente quello che vuole dire, sfruttando stilemi del genere (Haneke, su tutti), accompagnandoci nel suo (o nel nostro?) mondo grazie a un sottofondo ironico che stempera e rende più accessibile il film.
La danza con lo spettatore che Noi compie è serrata, lasciando noi con un “vuoto di parola”, assorbiti da un binomio immenso e singolo: un popolo aggiogato e una donna nel suo lucido delirio. Animali delusi (e illusi), senza traccia sulla loro stessa terra, guidati, in apparenza, da uno stelo d’erba inerme, arso da un sole al neon. “Vittime, non lo siamo tutti?” direbbe Eric Draven. Ma la protagonista di Noi è Adelchi, non Ermengarda. E, nonostante il volgo disperso un nome riesce, in extremis, ad averlo, alla fine per noi, per tutti noi, non resta che far torto, o patirlo.