Si potrebbe parlare di quanto le immagini di Alfonso Cuarón risultino sempre pregne, nitide, flagranti di un’energia che è piuttosto una linfa, essenziale e inesauribile ai fini della loro costituzione; o del loro rigore fermo, placido, a momenti respingente, dalla messinscena alla scrittura acuta ed allusiva – tutto è così inappuntabile da tenere anche a distanza l’emozione, ma preservandola - al lustratissimo bianco e nero con cui sceglie di delimitare gli spazi del suo Roma; oppure ancora di un immaginario costellato di presenze rituali, forme ormai riconoscibili come l’elemento naturale, l’acqua come superficie che riflette significati e contenuti, come chiara corrispondenza rispetto al flusso delle cose. Nessuna di queste parti è tuttavia preminente e in Roma l’equilibrio domina inamovibile.
Ebbene se ne potrebbe parlare, ma dietro profondità di campo così particolareggiate ed evocative (Cleo in background rispetto agli altri membri della famiglia, la sua bambina nata morta, il ragazzo che durante l’incendio nel bosco intona un canto..) e quindi dietro la forma rigida e composta dell’immagine, emerge il bisogno, da parte di Cuarón di ripensare e ridefinire la propria memoria costruendo un dramma epico e in parte ondivago melò al femminile. La domestica e la madre. Cuarón ne restituisce la solitudine e l’esilio, ma specialmente il perenne stato di attesa, apprensione: per un bambino, per i propri figli, per il marito, o per qualcosa che non si sa, effettivamente, se la si voglia o meno. Se con Y tu mama tambien, ad esempio, il regista messicano aveva mostrato particolare sottigliezza e perspicacia nell’osservare un certo divenire femminile, facendo sì che il moto interiore della protagonista si ripercuotesse sul coming of age dei due giovani – anche lì torna l’acqua come adiacenza, dintorno e fine ultimo, scelta etica ed estetica – in Roma la prospettiva è assoluta e interamente imperniata sull’intimità delle due donne.
Cuarón infonde ai suoi ricordi un’atmosfera anche spirituale, simbolica, dove a prevalere è il loro muoversi costante e fluido, evocandone familiarità e intimismo; una parentesi altissima in cui ciò che fa parte dell’osservazione del particolare, di un dato unico il regista vuole proiettarlo all’interno di una dimensione universale, globale, facendolo senza ostentazione né pretesa, realizzando, al contrario, una parabola individuale e in un certo senso anche politica, di silente ma consapevole e sentito ritorno alle origini. Di madri e tate che altrettanto silenziosamente ne fanno le veci e il cui dolore è trattato con un distacco inalterabile, come in Cleo che il regista sembra svestire, scoprire attraverso primi piani sospesi sul volto, trapassandone i lineamenti per arrivare nell’intimo. «Non importa quello che ti dicono, siamo sole.». Probabilmente l’unico, vero momento di contatto tra Cleo e la sua padrona, ed in quel «sole», in una condizione che Cuarón descrive non con compassione ma con integrità, riguardo ed estrema lucidità, sta poi tutto il resto: l’abbandono da parte dei partner, il parto, il salvataggio dei due bambini. Un lungo soliloquio.