Solo in seconda battuta si può definire Roma un film sul Messico inquieto e favoloso dell'infanzia di Alfonso Cuarón. Non nel senso - sarebbe demenziale - di una svalutazione, ma di un'indirettezza dovuta all'interposizione del filtro del proprio cinema, già da sempre in bilico tra fiaba e "mondo vero" e qui più che altrove esplicitamente tematizzato. "Non racconterò questa storia com'è avvenuta, ma come io la ricordo" - così iniziava in voice over la sua versione del Grandi speranze di Dickens (Paradiso perduto, 1998), con uno sguardo sul reale insieme passionale e distaccato, immersivo ed evasivo. Dove se il punto d'arrivo è la riconciliazione col mondo, il presupposto è la fuga dai suoi orrori. Già anni prima della villa e degli abitacoli di macchine in cui ci si ripara dalla guerriglia urbana in Roma, il regista andava tracciando una vera e propria topografia delle declinazioni del termine "rifugio".
Ad esempio, Il castello: è il collegio neogotico dove la protagonista di La piccola principessa (in clamoroso anticipo sui fantahorror dell'amico Guillermo Del Toro) inventa mondi di fiaba sullo sfondo della Grande Guerra, è la cadente tenuta "Paradiso Perduto" del già citato film omonimo in cui si sogna via la povertà; è ovviamente Hogwarts, massimo simbolo di fuga fantastica degli ultimi decenni. Oppure il viaggio, la strana capacità dei ragazzi di Y tu mama tambièn e del protagonista di I figli degli uomini di scivolare apparentemente indenni sulle macerie dei paesi che attraversano. Ma anche l'utero, macrometafora di tutta questa vicenda di distanza e riconciliazione (intesa come vera e propria nascita), rivelatoria dello statuto del femminile nella poetica dell'autore e pienamente visualizzata in Gravity, dal cordone ombelicale al liquido amniotico.
Per qualificare Roma come opera che si dà in posizione meta basta dire che in tutte le precedenti - a loro modo mai convolute o impenetrabili, tanto da consentirgli di affermarsi a Hollywood già al secondo film - la sensibilità per i mali del genere umano (spiccatamente politica, con particolare riguardo alla coscienza di classe) e la sublimazione autobiografica sono stati sì presupposto fondamentale, ma rimanendo di sfondo rispetto all'evolversi dell'azione. Con Roma ecco per la prima volta un film sfrontatamente sul ricordo, il racconto di sè, il tumulto politico, il classismo.
Poi il dato tecnico. Perché proprio ora il bianco e nero? Ogni volta che ha voluto contrapporre rifugio e "mondo di fuori" il nostro ha usato verde contro grigio, con un'insistenza nei primi film quasi (Wes)andersoniana. Si dirà che stavolta c'è in ballo il ricordo, ma è solo un altro nome del rifugio, la rielaborazione della realtà di cui parlava quel voice over. E che in Cuarón è fitomorfa, rampicante, vitale. Verde. Bianco e nero resta allora solo il cinema. Roma è il suo primo film in cui vediamo una sala cinematografica, il primo in cui rinuncia ai collaboratori blasonati (Lubezki) per fare tutto da solo, con un'enfasi sul mezzo che sconfina nell'identificazione. Vedere la segretezza quasi subliminale di un certo modo di comunicare, ad esempio nella sequenza della festa: con una carrellata raggiungiamo il volto della protagonista Cleo partendo dal giradischi che diffonde per la stanza I don't know how to love him dall'LP di Jesus Christ Superstar, la cui interprete Ivonne Elliman - nel ruolo di Maria Maddalena - ricordava straordinariamente nei tratti pellerossa quelli mixtechi dell'attrice Yalitza Aparicio. L'elezione di Cleo ad icona sacra e profana in un impalpabile riferimento cinematografico.
Una ragazzina che lavava il pavimento in La piccola principessa; le domestiche di una grande casa borghese e la storia (che allora sembrò buttata lì per caso) di un uomo che abbandona moglie e figli per andare a lavorare in Canada in Y tu mama tambièn; i disordini politici nello stesso film e I figli degli uomini, la scena del parto in quest'ultimo, una statua del Buddha e un piccolo astronauta come in Gravity. Roma è un collage di frammenti del cinema precedente del regista. La capacità di questa Città del Messico anni '70 di appellarli, evocarli quasi come spiriti, è un tributo alla sua forza archetipica. Ciò che proprio in quanto fondativo era liminare ha preso la scena.
In un à rebours che più che metacinema potremmo definire "autobiografia interiore" trova risposta il quesito sull'arte che da sempre impegna la riflessione di Cuarón. Intesa come fuga dagli aspetti mostruosi della realtà ha salvato tutti i suoi protagonisti, manifestandosi come racconto orale, pittura, sesso (Tenoch di Y tu mama tambièn era anche un aspirante scrittore), magia o tecnologia. Ma comporta il rischio tremendo dell'impassibilità, dell'assoluta distanza. È allora essenziale bagnarsi di vita, del liquido primordiale, come insegna l'acqua in cui si immergono prima o poi tutte le sue protagoniste femminili. Non chiudersi nella torre d'avorio di chi - come il personaggio di I figli degli uomini che teneva Guernica in sala da pranzo – si circonda di vuoto. Mai come in Roma si insiste sulla specificità maschile di questo rischio: qui l'arte è quella della guerra, l'arte marziale che dopo aver salvato un ragazzo ne fa un automa pronto a uccidere; l'attenzione maniacale con cui il padre assente - a differenza della madre - pennella da certosino la sua Ford nello stretto ingresso della villa al suono di musica classica.
Davanti a un simile pericolo, tanto più presente dopo i due Oscar che ne hanno sancito la definitiva istituzionalizzazione, il regista sente il bisogno di sondare la sincerità del proprio cinema - ne va del suo contatto col mondo. E il modo è risalirne la corrente fino al 1971. La commozione con cui visita queste figure del passato è la certezza di non usarle come tutti gli uomini (è detto esplicitamente) usano le donne, la certezza di amarle che gli ridà la convinzione di poterne fare un film, anzi: di poter fare film. Ecco perchè Fellini. Il titolo ammicca all'opera omonima del maestro, coi caratteri chiassosi e circensi di Amarcord. Ma Cuarón, all'ottavo film, si premura anche di inserire la sequenza di un ingorgo in una galleria..è anche troppo facile adattare a lui quel che il regista Guido Anselmi/Marcello Mastroianni diceva in 8 ½ dopo aver a lungo temuto di “non saper amare”..
"Ma che cos'è questo lampo di felicità che mi fa tremare e mi ridà forza, vita? Vi domando scusa dolcissime creature, non avevo capito, non sapevo... com'è giusto accettarvi, amarvi... e com'è semplice".