Clint stavolta non rifà Clint, piuttosto ridefinisce i contorni spigolosi della sua icona, ne affina ulteriormente lo spirito – fieramente americano nella poetica del self made man, progressista nel continuo desiderio di mescolarsi con una disperata umanità di frontiera – dialoga con i suoi tanti alter ego sopraffatti dalle contingenze terrene, gente che ha dovuto perdere tutto per ritrovare un po’ di umanità: fantasmi di un tempo passato, anime perse che hanno ancora il disperato bisogno di un corpo cui aggrapparsi. Il vecchio Earl il capitale umano lo raccatta poco alla volta, “on the road”, nelle sue corse contro il tempo (perché ne ha davvero poco e non ne può mica comprare), mescolato tra messicani mangia-fagioli, “niggers” bloccati a bordo strada, narcos a cui concedere il solito impeto paternalistico e lesbiche scambiate per virili centauri.

L’itinerario ha un effetto umanizzante che riempie lo schermo di sfumature e il “cavaliere pallido”, qui pervaso da sottile ironia e lucido disincanto, è capace di sventrare il nazionalismo a stelle e strisce caricaturando le etichette e svilendone i cliché. Non è un sergente di ferro, né un torvo reduce della Corea, ma un homo faber che intona elegie mentre guarda avidamente una giovane fanciulla. Clint non rifà Clint, ma lo ripensa, lo rielabora con sottigliezza e sostituisce l’elogio auto-celebrativo alla meditabonda ricerca del genius loci aleggiante in un’America familiare eppure estranea. Rincorre il tempo che gli resta e quello (pochissimo) che resta all’Altro – il messicano impaurito alle prese con i “5 minuti più pericolosi della sua vita”, il fugace siparietto con le lesbiche motorizzate, il primo incontro con l’agente della DEA – in una “lenta” scorribanda sulle strade violente.

Tutto quello che il cristallo del tempo deleuziano non riesce a imprigionare in un fotogramma, scorre in lenta contemplazione, nella doppia ottica della preda e del cacciato che rilegge il mondo attuale come una selva peckinpahiana addomesticabile, luogo e spazio della coscienza in cui è possibile, se non redimersi completamente, almeno rielaborare il proprio dolore e assorbire il rimpianto per le occasioni sprecate. Ma la promised land concede sempre un’opportunità, e in questo Eastwood è un fulgido classicista: basta però avere il tempo di farlo. The Mule è in fin dei conti un film che, parlando del tempo, si interroga sulla persistenza delle memorie di una vita, un road movie atipico che non corre mai, anzi, segue un andamento cadenzato, mai rapsodico e sviluppato a tappe, fino al duello finale con l’ultimo “alleato” dall’altra parte della barricata. Earl divora gli attimi e, per un puro paradosso, ne perde tanti nelle diverse fermate che gli tolgono per un po’ il fiato dei narcos sul collo. È l’edonismo della simpatica canaglia che sposa la profondità del resistente, del sopravvissuto che non vuole mai tirare le cuoia.

L’incontinenza strabordante del Clint (auto)celebrativo, che tanto aveva avuto un suo peso nello sfolgorante American Sniper, si risolve qui in una meditazione su una varia umanità, sull’altro da sé che innesca un’empatia perduta tra simili, tra predatori e cacciati. Clint non rifà (solo) se stesso, ma risale dal classicismo più autentico e viscerale per ripensare ad un nuovo centro di relazioni umane, chissà, forse il suo “mondo perfetto”, o quello che più gli si avvicina.