Il tempo di cui disponiamo ogni giorno è limitato (certamente è anche elastico come ricordava Proust, ma pur sempre limitato) e nessuno lo sa meglio di un orticultore che ha dedicato la sua vita all’Emerocallide, un  fiore di abbagliante bellezza che però vive un solo giorno (l’etimologia del suo nome significa proprio questo). Per coltivare questo fiore e vivere per la sua bellezza, portandolo in giro per fiere e campionati, Earl Stone trascura tutti i legami familiari, fino a logorare in modo quasi irreparabile quello con la figlia. In grosse difficoltà economiche e in cerca di soldi che possano permettergli di aiutare la nipote, l’ultima persona della sua famiglia con la quale ha mantenuto un legame, si troverà a lavorare per un cartello messicano della droga, per il quale diventerà quasi senza rendersene conto, un affidabilissimo corriere.

Ormai novantenne, incapace di recuperare il tempo perduto, consapevole di non poter fare affidamento su quello futuro, dilata quello presente, cercando nel qui e ora, il senso della sua inesausta voglia di vivere. Ogni consegna diventa così per lui anche una occasione per godersi le lunghe ore di macchina cantando, facendo deviazioni, alla ricerca di momenti di relax e svago, come fermarsi a mangiare il miglior arrosto del Midwest o intrattenersi con qualche fanciulla, con buona pace del cartello messicano, che lo preferirebbe più prevedibile e impazzisce per stargli dietro.

Il tempo è certamente un tema centrale nel film di Eastwood, come lo è anche in tutta la sua filmografia e non si tratta dunque solo di questioni anagrafiche. In tutti i suoi film infatti c’è sempre un momento in cui tutto il tempo passato, presente e futuro, sembra addensarsi attorno ad una singola scelta, un solo momento decisivo in cui il protagonista sente che ad un certo punto, deve prendere quella decisione e nessun altra. Questioni di coerenza, di etica, di verità.

Fare la cosa giusta, assume nel cinema del regista sempre un valore che dall’individuale, si eleva all’universale. Essere decisi e dunque decisivi. Senza enfasi e clamori, sempre senza retorica, l’esempio del singolo che può ispirare una collettività, è una delle pietre angolari del cinema di Eastwood.  Non meno importante della scelta, è la capacità di farsi carico fino in fondo della  responsabilità del proprio gesto, come quello di interrompere una consegna di centinaia di chili di cocaina, per andare al capezzale della moglie morente ben sapendo di rischiare di essere ammazzati o come quella di assumersi davanti alla legge, prima che possa parlare qualcuno in propria difesa, la completa responsabilità di quanto si è fatto, sapendo di dover così concludere in carcere gli ultimi anni della propria vita.

Mentre con la semplicità che gli è propria (la semplicità dei grandi) mette in scena le storie che lo ispirano e lo interessano, negli ultimi anni Eastwood ha anche compiuto una raffinata ricognizione sul rapporto fra finzione e realtà, scegliendo, nelle sue pellicole più recenti, di dedicarsi, come in questo caso, a soggetti tratti da avvenimenti di cronaca.

Quasi che la sua ricerca di verità non potesse più darsi se non in un rapporto strettissimo con la realtà, il regista intesse così i suoi film di raccordi con  la vita reale. I due finali di American Sniper e Sully, con i documenti filmati dei personaggi reali che compaiono sui titoli di coda, in questo senso sono paradigmatici. Ancora di più, lo è stato aver utilizzato per Ore 15:17 – attacco al treno i veri protagonisti dell’attentato, come attori del film. Dunque una finzione cinematografica che ha bisogno di essere innervata di realtà per potersi caricare di verità.

Ed forse anche di questo che si occupa un film come questo, in cui il protagonista è in aperta e apparentemente anacronistica polemica con tutto ciò che è virtuale, come le numerose battute di Earl verso chi usa i cellulari o verso internet, luogo misterioso e giudicato inutile, ma tanto reale da minare e far fallire la sua attività lavorativa. Ma si guarda bene Clint da apparire nostalgico: non è col virtuale in quanto tale che se la prende, né con le possibilità dei nuovi mezzi di comunicazione, come quei cellulari che Earl non riesce ad imparare ad usare.

Il nodo sono sempre le persone, le relazioni. E’ lì che il virtuale mostra la sua fragilità, quasi la sua pericolosità, perché in qualche modo tiene a distanza,  consente sì una sorta di vicinanza, ma allontana la realtà del contatto umano. In questo senso  leggiamo quindi il dialogo sull’importanza degli affetti familiari tra il protagonista e il poliziotto che lo insegue, che distratto, davanti al cellulare, si accorge di essersi dimenticato il suo anniversario di matrimonio.

Ed ecco che in un film che ci parla anche dell’importanza della famiglia e dei legami profondi che vanno saputi coltivare e curare, ad interpretare la figlia, quella figlia che non gli rivolge più la parola e che solo alla fine riuscirà a riavvicinare a sé, Clint, chiama proprio sua figlia, Alison Eastwood: ancora una volta, la realtà entra con forza nella finzione cinematografica e la carica di senso e di verità, e mentre ne svela in qualche modo anche i suoi limiti, attraverso questi cortocircuiti rivela anche le prismatiche possibilità del mezzo cinematografico, nel suo metterci, a portata di sguardo, tutta la complessità del mondo.

L’ennesima lezione di cinema di un grande maestro.