Eccolo qui, il capitolo di mezzo della grande trilogia cinematografica di animazione con protagonista Miles Morales nei panni dell'uomo-ragno. Dopo il trionfo di pubblico e critica di Spider-Man – Un nuovo universo (2018), arriva infatti in sala Spider-Man: Across the Spider-Verse, diretto da Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson, e basato sullo stesso universo finzionale sviluppato da Phil Lord e Christopher Miller (qui anche sceneggiatori assieme a David Callaham).

Miles è dunque di nuovo l'eroe principale, ma certamente non il solo: se nel primo episodio il nostro  veniva morso da un ragno radioattivo, vedeva morire Peter Parker e riusciva alfine a distruggere il malefico dispositivo che consentiva il passaggio da un mondo parallelo all'altro, qua scopriamo che l'impresa non è andata realmente a buon fine e ritroviamo Miles a fare nuovamente comunella con le innumerevoli versioni di Spider-Man esistenti nei vari universi – speculari alle molteplici declinazioni che il personaggio ha avuto nella realtà – saltando di dimensione in dimensione per riportare ovunque la stabilità.

Per quanto, come nella storia dei blockbuster di solito accade ai capitoli mediani delle trilogie, questo Spider-Man: Across the Spider-Verse si sviluppi e termini su cupe note di fondo, si mantiene invece sfolgorante come il suo predecessore sul piano visivo, di cui amplia ulteriormente le ambizioni. È difficile ormai, nel cinema vertiginoso e adrenalinico di oggi, riuscire a superare il muro della capacità di meraviglia dello spettatore, ma nei due titoli sinora distribuiti i colori sono di una magnificenza abbacinante, e il ritmo delle trovate visive più indiavolato di quanto il cervello umano riesca a elaborare tutto assieme.

La tridimensionalità consentita dalla CGI è fondamentale sia per l'implementazione di scene d'azione iperboliche, nelle quali i punti di riferimento si scompaginano e sembra di volteggiare col nostro supereroe in assenza di gravità (aspetto che ben varrebbe una visione in IMAX), sia per lo stile visivo, che comunque sceglie di mantenere le suggestioni della forma fumetto al suo centro. Così, non solo sullo schermo vediamo comparire vignette relative a dialoghi, indicazioni d'ambientazione e addirittura note a piè di pagina ma, in maniera ancor più decisiva, linee, tratti e pennellate si declinano di volta in volta secondo stili differenti attraverso i vari mondi dello Spider-Verse, in un eclettismo visivo che va dalle tavole di Leonardo da Vinci ai Lego.

Così Spider-Man: Across the Spider-Verse, come e ancor più del primo capitolo, finisce per diventare un vero e proprio compendio del reale “universo Spider-Man”, ma anche una sorta di monumentale giustificazione narrativa a posteriori delle molteplici facce assunte dal personaggio sui media, nei decenni e in tutto il globo, fra fumetti, cartoni, film e videogiochi. E nel fare tutto ciò, riesce fra le righe a farsi manifesto delle potenzialità grandiose dell'animazione, che può essere tutto quello che vuole e fare tutto ciò che le pare senza gli impedimenti materiali che stanno dietro alle riprese live action (inserite nella trama come una fra le tante modalità di rappresentazione possibili), preconizzando le future evoluzioni della tecnica digitale di cui ci fa quasi un po' paura parlare, dai deepfake all'ignoto che verrà.

Per ora abbiamo Miles Morales, ed è un perfetto figlio del nostro tempo. Se Spider-Man è da sempre l'adolescente problematico per eccellenza, Miles è però molto meno goffo e introverso di Peter Parker. Sono entrambi newyorkesi, ma Peter è un bianco del Queens, mentre Miles è in parte portoricano in parte afroamericano, e se i genitori non lo avessero spedito in un'ottima scuola dei quartieri ricchi sarebbe stato perfettamente a proprio agio nella sua Brooklyn. Se l'insicurezza di Peter è connaturata alla sua personalità, quella di Miles deriva in buona parte da come lo tratta il mondo là fuori.

E quando si ritrova un Peter Parker come mentore, fra tutti gli esemplari esistenti negli altri universi possibili gli tocca proprio quello trasandato, con la barbetta incolta e la pancetta, alle quali in questo nuovo capitolo – ormai diventato papà – ha aggiunto vestaglia e ciabatte. Nessuno poi si azzardi la pronunciare la temibile “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”, giacché qualcuno immediatamente gli intimerà di tacere per carità, che la vita quotidiana oggigiorno è già abbastanza pesante così com'è.

Ma, al di là degli evidenti aggiustamenti allo zeitgeist, questo Spider-Verse, per quanto visivamente immaginifico, dal punto di vista del racconto resta paradigmatico del genere supereroistico: l'avventura e l'azione si mescolano con tormenti personali e affettivi di stampo mitico, il tutto in un humus di ironia e autocitazionismo tipici del post-moderno. Spider-Man: Across the Spider-Verse è consapevole della sua tradizionalità narrativa di fondo, e furbescamente tematizza al suo interno il tentativo di discostarsene parzialmente secondo modi che intercettino la sensibilità odierna – così insoddisfatta di sé da desiderare ardentemente altri mondi possibili – ma rispettando al contempo i valori consolidati del fandom.

L'esempio emblematico è l'introduzione all'interno della trama del concetto di “canone”, esplicitato come snodo fondamentale dell'intreccio che, pur con tutte le varianti del singolo caso, non può non accadere in tutti gli scenari dello Spider-Verse, pena la distruzione dello stesso. Il discorso sull'ossequio e la trasgressione del canone si fa quindi motore narrativo, che riflette ricorsivamente su fino a dove ci si possa spingere per portare un franchise al massimo della sua espansione senza farlo implodere su se stesso per eccesso di senso. Visto anche il finale spudoratamente tronco di questo secondo capitolo, aspettiamo Spider-Man: Beyond the Spider-Verse per nuove suggestioni.