Il cinema di Peter Bogdanovich è tutto dentro It’s Only A Paper Moon, il longseller americano che ispira il titolo del suo quarto lungometraggio: “But it wouldn’t be make believe / If you believed in me”. Ovvero un patto, fondato su un’illusione a cui s’è deciso di credere per continuare a sentirsi vivi dentro un mondo che è morto fuori dall’accogliente trappola del ricordo. Tra gli assi della covata new hollywoodiana, Bogdanovich è forse il più associato all’epica della nostalgia e il meno riletto dalla (giovane) critica contemporanea, quasi sicuramente perché i suoi film, a differenza di quelli di Scorsese, Coppola o Spielberg, non sono assurti al rango del culto generalista – e altresì pure per una certa sfortuna che non gli ha permesso di collezionare altri successi commerciali dopo il folgorante inizio di carriera.

Eppure la sua opera è troppo importante per essere liquidata soltanto come il lavoro di un cinefilo che ha spiegato il cinema con il cinema stesso, non fosse altro per le molteplici declinazioni della sua personalità cinematografica. Come altri autori della sua generazione, Bogdanovich è anzitutto un cinefilo; a differenza degli altri, sul modello Cahiers, è partito dalla critica per teorizzare, plasmare, creare il proprio cinema. Un cinefilo militante, perfino un cinefilo ritrovato per la straordinaria devozione che ripone nel passato, luogo da setacciare per imbattersi in infinite riscoperte, e nei venerati maestri, dai quali brama di carpire i segreti del mestiere, con un interesse non tanto scientifico quanto passionale, da spettatore che vuole andare in profondità nell’opera dei propri miti.

Quando il suo talento esplode dietro la macchina da presa, Bogdanovich è un trentenne di belle speranze, ma i suoi maestri, i padri, stanno uscendo di scena: qualcuno ha chiuso bottega (Allan Dwan), qualcun altro è sul punto di lasciarci (John Ford) o non trova chi gli dia credito per lavorare (Orson Welles). È in questo frangente che il figlio Bogdanovich mette in scena personaggi che soffrono la perdita dei padri. A loro modo, i suoi primi film desiderano tutti di tornare, esplorare, rievocare e addirittura confutare un’epoca perduta: in modo esplicito nel caso dell’anziano attore dimenticato del teorico debutto Bersagli, implicitamente nello scatenato Ma papà ti manda sola?, dichiarata cover di Susanna! che ripropone i fasti della screwball (concetto ripreso anche nell’ultimo, un po’ sottostimato opus Tutto può accadere a Broadway), per tacere della complessità iconografica, metafilmica, storica, geografica del capitale L’ultimo spettacolo.

Nel suo particolare iperrealismo mediato dalla coscienza cinefila, Paper Moon non fa eccezione a partire dalla coppia protagonista, formata dal trentenne Moses e dalla piccola Addie in giro per l’America meridionale, tra il Kansas e il Missouri, a truffare vedove porta a porta. Siamo in pieno New Deal, il bianco e nero con filtri rossi del complice László Kovács rincorre la purezza del passato trasparente contro il presente dominato dalla tirannia del capitale, e dalle radio si sentono canzoni che restituiscono l’aria del tempo. La bambina, appena rimasta orfana, si ostina a credere che Moses sia il padre che non ha mai avuto e perfino il citato Roosevelt è incaricato simbolicamente di soddisfare il disperato bisogno di figura paterna (e qui Bogdanovich rielabora il cinema del New Deal, dove la non innocente sintonia presidente-padre s’insinua costantemente).

Se consideriamo Addie è una Shirley Temple che ha marinato la scuola con Jackie Coogan, Moses è allora il suo padre ideale, loser che si fa quotidianamente sopraffare dalla società, tramp nomade che si avventura in un viaggio nel cuore della nazione (come nel successivo Vecchia America), antieroe di Mark Twain cresciuto con l’umorismo a cui è costretto colui che vive il proprio personale romanzo picaresco. Cover di Bonnie e Clyde privati della componente sessuale, sono due personaggi filtrati, creati, espressi, simulati dal cinema e dal suo mito, riflessi di un’epoca raccontata ripensando e reinterpretando il suo immaginario estetico, ma che hanno capito come sabotare il mito per annullare la mitologia e sopravvivere nella storia. Oppure alla storia: se ne pongono fuori, perché nel cinema di Bogdanovich la storia è un’illusione, qui accettata con ironico disincanto, illuminata dal bagliore falso di una luna di carta che irradia la platea dallo schermo di una sala che non vuole chiudere – che è sempre quella di Anarene, cioè l’America, cioè il cinema, che da lì non usciranno mai, nemmeno dopo the last picture show.