Qualcosa sta cambiando nel cinema italiano. O meglio: quel meccanismo volto alla diversificazione un tempo ben sedimentato, funzionante per decenni e da qualche tempo inceppato, pare stia lentamente tornando a funzionare al meglio. Un sistema in grado di scardinare il contesto asfittico che per gran parte degli anni Duemila non aveva lasciato alternativa allo smorto bipolarismo composto dalla commedia alleggerita (più che leggera) volta all’incasso con risultati più o meno riusciti e il dramma autoriale intimista, tragicamente impegnato e molto spesso elitario. Qualcosa sta cambiando, grazie principalmente ad una nuova generazione di cineasti (produttori e sceneggiatori oltre che registi) disposti a rischiare nei rispettivi ambiti e ad inoltrarsi in territori non più frequentati a livello nazionale.

Nell’anno in corso abbiamo così avuto modo apprezzare un eccellente western come Il mio corpo vi seppellirà di Giovanni La Parola, la brillante distopia imbastita da Alessandro Celli in Mondocane, o ancora l’imperfetto ma l’audace revisionismo di De Feo e Strippoli in A Classic Horror Story. In questa corrente il nuovo, agognatissimo, film diretto da Gabriele Mainetti svetta per aspirazione produttiva e ricercatezza formale. Il regista romano, sostenuto in fase di scrittura dal fidato Nicola Guaglianone, concepisce un kolossal nostrano che giunge a sei anni di distanza dall’acclamato esordio. Era infatti il 2015 quando Lo chiamavano Jeeg Robot debuttava alla Festa del cinema di Roma, inaugurando il percorso che nei mesi successivi avrebbe portato il film ad assumere il ruolo di opera-manifesto per una generazione di spettatori, oltre che di aspiranti operatori del settore, in attesa che qualcuno dimostrasse che un certo tipo di operazione fosse possibile anche nell’artigianale contesto produttivo italiano.

Di Jeeg Robot questo nuovo affresco epico mantiene l’ambizione di partire da un contesto realistico ed impiantarvi una storia animata da personaggi anomali, per i quali il mondo ordinario è una gabbia costrittiva e non un’arena brulicante di possibilità. Freaks Out riprende questo atteggiamento per ampliarne la portata ed inscenare lo spaesamento di quattro super performer circensi che nella Roma della Seconda Guerra Mondiale vedono crollare il loro piccolo angolo di mondo senza sapere chi o cosa essere in un contesto nel quale è ormai impossibile trovare qualcuno disposto a pagare un biglietto per ammirare le loro diversità. Il modo in cui la storia diegetica viene innestata nel più ampio tessuto della Storia umana è fortemente debitore delle fiabe dark di Guillermo del Toro, la cui filmografia è solo una tra le molteplici fonti di ispirazione.

Perché se l’iniziale tinta grottesca rievoca immediatamente la cupa aura circense de La ballata dell’odio e dell’amore, Mainetti mette subito in chiaro di non ambire al grottesco orrore del capolavoro di Alex de la Iglesia ma di essere interessato ad un tono più solenne, strizzando l’occhio al cinema d’avventura d’oltreoceano (Spielberg su tutti) ed alla sua canonica bipartizione tra forze opposte. E come ogni racconto high concept che si rispetti, Freaks Out necessita di un antagonista di spessore, dal quale far scaturire gli ostacoli che si frappongano tra i protagonisti e il loro approdo finale. Il ruolo è affidato al pianista con arti da sei dita di Franz Rogowski, il quale fin dal suo esordio con un’esibizione melodica della celebre Creep dei Radiohead tradisce un legame con la nostra contemporaneità, che, grazie ad una scrittura in cui nulla è casuale, diviene ben presto pregiato materiale narrativo.

La sua ossessione nei confronti degli esseri con poteri straordinari è motivo tanto di frustrazione quanto di bramosia, ed è facendo leva su questo secondo punto che il suo personaggio mira ad un’ascesa sociale nelle file del Reich; fine agognato ma lungamente disatteso a causa della derisione che il suo stato di essere deforme suscita tra i camerati nazisti. Da queste premesse Mainetti estrae una sublime cacofonia di eventi, con svolte di trama che traboccano di folgoranti intuizioni visive, le quali concorrono alla composizione di un rutilante mosaico in cui violenza e tenerezza si tengono per mano e danzano con meravigliosa disinvoltura su un crinale posto tra l’asprezza del reale ed il regno magico della fantasia. Al dramma bellico si affianca il rito che porta alla consapevolezza di sé stessi, alla tragedia fattuale delle deportazioni si accostano divagazioni atte a smorzare qualsivoglia pretesa di attinenza storica, come l’irresistibile trovata di inserire un gruppo di partigiani in versione steampunk (gli unici veri “freaks”) con i loro supporti meccanici a rimpiazzarne le mutilazioni del corpo.

E anche quando la scorpacciata di azione, citazionismo ed effetti speciali mai visti prima d’ora nel cinema italiano rischiano il sovraccarico, è ancora una solida struttura espositiva che riesce a non disperdere questa infinità di spunti, mantenendo una rotta chiara verso la compiutezza e la giusta risoluzione dell’intero ecosistema di sotto-trame. L’autorialità di Mainetti si conferma proprio nel saper concentrare toni provenienti da disparate tipologie di cinema mainstream e condensarle in un prodigio dalla spropositata fame di grandezza, riuscendo però a trarne il meglio senza lasciarsi travolgere da essa.

Questi i meriti artistici di un lungometraggio il cui valore non si risolve però entro i limiti testuali; perché al di là di essi Freaks Out si conferma in ottica industriale quel miracolo da tempo auspicato, assurgendo a ruolo di irrinunciabile punto di rifermento per chiunque d’ora in poi vorrà produrre, scrivere e dirigere film d’intrattenimento in questo paese.