In tempi in cui ancora “un distintivo fa più paura di una pistola” e le strade statunitensi sono teatri di omicidi di afroamericani per mano della polizia, un film come Judas and the Black Messiah scuote animi e coscienze, ribadendo – se ancora non fosse chiaro – che il razzismo è tutt’altro che superato.

Prodotto da Ryan Coogler, abile rielaboratore in chiave black di stilemi e generi hollywoodiani, il secondo lungometraggio di Shaka King, pluripremiato e candidato a sei Premi Oscar (tra cui Miglior film e Miglior sceneggiatura), si inserisce in quel filone tutto afroamericano di rilettura della storia nazionale da un punto di vista alternativo a quello bianco maggioritario. Un intento che va oltre il revisionismo barricadiero, in favore di una riscrittura del passato comune alla luce di una consapevolezza ormai acquisita di un percorso civile troppo a lungo ignorato se non addirittura ostacolato. Il nuovo cinema storico nero fa luce su personaggi ed episodi spesso quasi del tutto dimenticati, al fine di costruire una mitologia afroamericana che integri quella WASP da sempre appannaggio della tradizione statunitense, venendo così ad aggiungere tasselli importanti al ritratto di un Paese multietnico più di diritto che di fatto.

King sceglie di portare sullo schermo una delle pagine più oscure della storia nazionale, quella del Black Panthers Party e la sua sistematica persecuzione da parte delle istituzioni, che guardavano come una minaccia il movimento rivoluzionario fondato sull’ideologia di Malcolm X e i principi di lotta all’oppressione coloniale in Africa. Come evidenzia Gene Marine in Black Panthers, false accuse, arresti immotivati, distorsioni intellettuali, pressioni psicologiche e omicidi premeditati sono i subdoli mezzi usati dal Governo ai danni del Partito e dei suoi rappresentanti più autorevoli, colpevoli di aver alzato la testa e dismesso il ruolo servile fino allora riservato ai neri e, nel rispetto delle norme giuridiche, adoperatisi per conquistare i diritti assicurati dalla Dichiarazione di Indipendenza ad ogni uomo ma a loro ancora negati.

Il regista ripercorre la parabola di Fred Hampton, Presidente della sede di Chicago del Partito, ucciso nel sonno dalla polizia nel letto di casa sua. La scelta del soggetto non solo sviluppa una riflessione scottante su una delle comunità storicamente più segregate d’America (Ta-Nehisi Coates ne parla apertamente in Un conto ancora aperto), tutt’oggi profondamente divisa tra quartieri alti e popolari, ma viene a costituire un vero e proprio atto d’accusa verso il disonesto ostruzionismo istituzionale bianco al progresso della causa nera. Senza omissioni né assoluzioni, King ricostruisce il tradimento di Hampton pianificato dal FBI con la collaborazione di William O’Neal – interpretato da Lakeith Stanfield, ormai destinato a incarnare le contraddizioni e i conflitti interiori dell’afroamericano – ladro d’auto che accetta di fare da infiltrato in cambio di uno sconto di pena per i reati di cui è accusato. Come Giuda rinnega il Messia dopo averne conquistato la fiducia, così fa l’uomo con il carismatico leader, portatore di un messaggio innovatore capace di incendiare gli animi delle folle riunendo neri, ispanici e bianchi nella Coalizione Arcobaleno, impegnati nella lotta comune per l’autodeterminazione al grido  “ovunque ci siano persone, c’è potere”.

In questo modo, il film si fa sorta di compendio della politica delle Pantere Nere, ancora oggi troppo poco conosciuta e approfondita anche nel contesto nazionale. Non solo più volte è messo in evidenza il rifiuto delle armi se non per autodifesa, ma è anche espressa con chiarezza la necessità di opporsi all’oppressione violenta e intimidatoria delle forze dell’ordine come forma di resistenza al fascismo da essi rappresentato agli occhi degli afroamericani. E il film non fa che ribadire coi fatti tutto questo, mostrando le fasi del complotto ordito dai federali per mettere a tacere una voce troppo pericolosa perché vera.

È qui che King fa un passo avanti rispetto agli altri pur meritevoli film del medesimo filone. Quello che poteva essere un tradizionale biopic partigiano sulla vita di un personaggio storicamente scomodo umanizzato – come abitudine ormai consolidata del nuovo cinema black – nella fragilità tutt’altro che eroistica dell’amore per la compagna e madre del figlio nascituro (dal primo incontro, la macchina da presa non inquadra più l’uomo dal basso all’alto bensì frontalmente) trova il suo punto di maggior forza nel porsi come feroce atto d’accusa rivolto al passato ma diretto al presente. Come in The United States vs. Billie Holiday di Lee Daniels, il centro della pellicola non sono propriamente le vicende biografiche dei rispettivi protagonisti, quanto il contesto in cui esse si sviluppano e di cui i personaggi sono in definitiva vittime. Se in questi anni la Hollywood più progressista ha proposto numerose interpretazioni dello storico fronte comune misto per l’integrazione nera attraverso vicende reali in cui il bianco risulta essenziale al raggiungimento degli obiettivi della controparte (Loving, Il diritto di contare o Green Book), oggi King e Daniels rivoltano i medesimi assiomi, mostrando una realtà scomoda e dolorosa. Un cinema rivoluzionario – termine da intendersi nella sua accezione più militante – che mette alla berlina il sistema maggioritario che troppo e troppo a lungo ha contrastato, per ottusità o personale tornaconto, la causa nera impedendo volutamente quel progresso di cui almeno in parte si faceva promotore.

Fin troppo eloquente risulta quindi l’endorsement di Oliver Stone: “Fino a oggi, sarebbe stato impossibile che un film come questo fosse finanziato”. Il cinema americano sta cambiando nelle forme e negli stili; si sta attuando un radicale riassestamento dell’intero sistema produttivo perché dall’interno nuove forze stanno rinnovando l’industria e l’immaginario a stelle e strisce, riequilibrando parametri e traiettorie narrative e iconografiche date ormai per assimilate, in considerazione di nuove letture che tengano conto delle molteplici voci che da sempre hanno cantato l’America, nel bene e nel male. Che la rivoluzione parta anche da qui?