È sempre difficoltoso parlare di dolore poiché non si riesce a restituire pienamente il turbinio di sensazioni in cui si viene travolti, ma pare ancor più arduo rendere l’idea dell’assenza di qualcuno. Basta soffermarsi un attimo a pensare ad una persona in particolare e a tutte le miriadi di piccolezze che la rendono tale: il suono della voce, la gestualità, il modo di camminare e così via. Fortunatamente il cinema riesce a soccombere a questa problematicità prestandosi come luogo deputato dell’animo umano e delle assenze. Qui, quest’ultime possono divenire nuovamente presenze, cristallizzate per sempre – beffando il tempo e la vita – nelle fuggevoli immagini che si rincorrono sul grande schermo.

Questo lo sa bene Mathieu Amalric che nel suo ultimo film, Stringimi forte, esplora i territori gelidi del dolore e dell’elaborazione della perdita, imbastendo una delicata e stratificata costruzione narrativa. Adattato liberamente dalla pièce teatrale Je reviens de loin di Claudine Galea, il film si presenta come un intreccio di linee narrative diverse, arricchite di flashback e flashforward, che si incontrano e scontrano dando vita ad una mappatura geografica dei sentimenti della protagonista: Clarisse (Vicky Krieps).

Il suo viaggio inizia a bordo di una AMC Pacer rossa del ‘79, lasciando silenziosamente i due figli e il marito, a cui spetta il fardello, mentre prepara la colazione, di trovare le parole giuste per motivare l’assenza ai suoi ragazzi. Paul è alla costante ricerca di risposte, mentre Lucie persegue nel rincorrere le note sulla tastiera del pianoforte. Ma nel cinema la realtà può mutare, cambiare forma fino a contraddirsi. Clarisse è davvero partita per vedere il mare (qui dal sapore vagamente ghirriano), immaginando al tempo stesso l’incedere dei suoi cari? E quella casa lasciata alle sue spalle si riempie veramente di vita, tazze, ricordi e melodie o solo di polvere e vecchie polaroid?

Amalric cuce la duplice natura della sua opera con il filo (non troppo nascosto) della musica, muovendosi tra le sinfonie di Chopin, Ravel, Rameau, Debussy, Rachmaninov, Beethoven e Mozart. Queste erette a guida tra le “montagne” (ghiacciate) di dolore della protagonista, più volte assurgono anche come “cordone ombelicale” capace di tenere ancora in vita il legame madre-figlia. Del resto, la musica non è mai stata marginale nel cinema del regista francese, si pensi a Tournée e Barbara.

Un film fatto di frammenti – sperimentato già con La stanza blu - con cui lo spettatore gioca come fossero tasselli di un puzzle. Sì, perché quella che a ben vedere sembra a tutti gli effetti una fuga di una moglie-madre - sottolineata da un montaggio che alterna istantanee della donna e della famiglia alle prese con la sua assenza -, ben presto si scopre essere una fuga dal dolore e dalla perdita. L’intensa e mai esasperata Vicky Krieps riesce a trasmettere la sofferenza attraverso gli occhi, piccoli gesti e sorrisi velati da una dolce malinconia, divenendo al contempo la “regista interna” del film. La voice-off la fa dialogare con il marito, mentre un quaderno la lega alla figlia. Una storia che fa ben sperare in un futuro pieno di vita, ma altro non è che uno spettacolo in cui la protagonista muove i fili della sua famiglia.

A differenza della Julie di Krzysztof Kieślowski in Tre colori - Film Blu, Clarisse per superare il triplice lutto non cerca di distruggere il passato, piuttosto sembra operare all’inverso: lo alimenta a tal punto che diviene quasi impossibile distinguere il reale dall’irreale, fino a concepire un futuro per i suoi tre amati in cui è lei ad andarsene. Ma la verità è limpida anche per Clarisse che più volte recita, quasi fosse un mantra, “non sono stata io ad essermene andata” e, alla fine, si abbandona al dolore giocando a memory con le vecchie polaroid.

L’opera perde un po’ della sua potenza nel momento in cui cade il velo di enigmaticità imbastito nella prima parte, divenendo piuttosto ridondante nella seconda (specie quando Clarisse inizia a cercare in alcuni sconosciuti i “doppi” dei suoi cari). Ad ogni modo, con Stringimi forte Amalric attua un minuzioso lavorio mediante la retorica dell’ossimoro, sottolineandone la duplice natura teorica e sentimentale. Un melodramma che ragiona anche sul mezzo stesso, in quanto solo tramite l’arte e il cinema, con tutta la sua forza catartica, è possibile sopravvivere al dolore e alla tirannia del tempo.