Dopo Brick Lane, che racconta dei matrimoni combinati nella comunità bengalese a Londra, la regista britannica Sarah Gavron torna a riflettere sull’identità, i ruoli e le discriminazioni di genere, andando questa volta al cuore e alle origini del femminismo. Nel raccontare la lotta per il diritto di voto nell’Inghilterra degli anni Dieci, Suffragette (in programmazione fino a lunedì 7 marzo al cinema Lumière in lingua originale sottotitolata) si cimenta infatti nell’arduo compito di riscrivere un capitolo fondativo della storia dell’emancipazione femminile, clamorosamente ignorato – almeno finora – sugli schermi cinematografici.
La tentazione di confezionare un biopic agiografico sulla figura di Emmeline Pankhurst, leader del movimento suffragista, doveva essere certamente forte, eppure Gavron sceglie di raccontare questa storia dalla prospettiva della “donna qualunque”. Maude è infatti una giovane madre della working class, costretta a turni estenuanti in una lavanderia di dickensiana memoria e tiranneggiata da un capo dispotico e senza scrupoli. Il suo progressivo impegno nella causa delle suffragette coincide con una graduale emancipazione intellettuale, ma anche con l’emarginazione dalla comunità e dal nucleo familiare.
Pankhurst, figura carismatica almeno quanto l’attrice che la incarna (e qui lo statuto divistico di Meryl Streep è sfruttato con estrema intelligenza), concede solo una fugacissima apparizione. Giusto il tempo di proferire lo slogan più vibrante e battagliero del film: «We don’t want to break the law, we want to make the law!». La prospettiva adottata, se non propriamente sociologica, è comunque permeata da un desiderio di attendibilità nella ricostruzione degli spazi e delle atmosfere. Il contesto sociale di riferimento, tratteggiato con dovizia di particolari, fa da sfondo a figure eroiche scritte ad hoc su interpreti femminili di primo piano – Carey Mulligan, Helena Bonham Carter e la già citata Streep. In quest’ottica anche il gusto visivo nella composizione del frame è inserito in una messa in scena sobria e tutto sommato convenzionale, sempre al servizio di una narrazione coinvolgente ma verosimile.
Nel raccontare le sofferenze patite dalle suffragette, il film ha sicuramente il merito di restituire dignità a una battaglia troppo spesso edulcorata nell’immaginario cinematografico. Se la lotta al diritto di voto era stata associata ad una pigra rivendicazione di borghesi annoiate, tutte pizzi e crinoline (ricordate la signora Banks di Glynis Johns in Mary Poppins?), Suffragette tenta di rendere conto della violenza della lotta per il voto e di rivendicarne la portata anche fra i ceti meno abbienti.
Saranno certamente deluse le aspettative di chi dal film si attende la ricerca di una differenza dello sguardo e un tentativo di scardinare l’egemonia di quel male gaze tanto discusso nei feminist film studies degli anni Settanta per una teoria femminista del cinema. C’è forse da dire che la mancanza di una tale riflessione (che d’altronde non sembra ravvisabile nemmeno a livello progettuale) può essere legittimamente giustificata dal periodo preso in esame: Suffragette si concentra su quella prima generazione di femministe che rivendicava proprio l’uguaglianza, nei diritti civili come nelle rappresentazioni culturali.
Al netto delle riflessioni che può suscitare, a Suffragette va senza dubbio riconosciuto il pregio di raccontare una storia importante, bisognosa di essere ricordata e riscattata. Un’opera che costituisce anche produttivamente – regia, produzione e sceneggiatura tutto al femminile – un’eccezione che ci auguriamo di poter trovare sempre più spesso.