Ispirato alla storia vera dei coniugi Robert e Ila Fae Dent, Sugarland Express è noto ai più come debutto cinematografico di Steven Spielberg. In realtà, quando il regista di Cincinnati nel 1973 iniziò le riprese di questo film aveva già all’attivo vari cortometraggi (in particolare Amblin’, che diede il nome della sua casa di produzione), diversi episodi di serie Tv tra cui Colombo e Mistero in galleria, un paio di Tv movies (Il signore delle tenebre e Savage), ma soprattutto il suo vero e proprio esordio nel lungometraggio intitolato Firelight (1964) – che però fu proiettato solo una manciata di volte in un cinema locale affittato dal padre in quanto interamente prodotto dal regista diciassettenne – e un altro film per la Tv che venne poi allungato con l’aggiunta di alcune sequenze per essere proposto in una versione cinematografica (Duel, 1971, oggi assurto allo status di vero e proprio cult).

Non stupisce quindi che in questo film si noti già la mano di un regista maturo, soprattutto nella dimestichezza con il linguaggio cinematografico: inquadrature studiatissime dal punto di vista compositivo, scansione dei tempi senza sbavature, padronanza nella gestione della tensione, fluidità nei passaggi tra il registro drammatico e quello comico sono alcuni degli elementi che spiccano anche a una visione superficiale.

Nel raccontare la vicenda di due genitori (Clovis e Lou Jeane Poplin) che prendono in ostaggio un poliziotto nella sua auto d’ordinanza per raggiungere il figlioletto Langston – affidato dai servizi sociali, durante la loro detenzione, a una famiglia residente nella cittadina di Sugarland – Spielberg si dimostra già un autore con chiare idee su come intenda fare cinema e dirige con mano sicura un ottimo cast, guidato da una Goldie Hawn perfetta nel ruolo di una madre sconvolta, con un carattere a metà tra l’isterico e l’eterno adolescente.

Nel film sono già presenti temi cari al regista, innestati su un impianto che trasfigura in chiave intimista uno dei topos della New Hollywood: il road movie viene infatti qui piegato alle esigenze di un giovane regista che non vuole né semplicemente mostrare i grandi paesaggi statunitensi né concretizzare nel viaggio una rivoluzione generazionale o una controrivoluzione culturale. Ciò che interessa a Spielberg è in particolare creare un’empatia del pubblico verso questi due giovani disarmati nei confronti della vita, che minimizzano costantemente la loro posizione rispetto alla legge mentre cercano di raggiungere il loro obiettivo di riprendersi “baby Langston”.

Tenendo al centro del racconto (e delle immagini: quanti bei primi piani in questo film!) questa coppia con appendice (il poliziotto interpretato da Michael Sacks, prima 'vittima' dell’empatia verso i suoi rapitori e pertanto metafora dello spettatore), Spielberg allarga il quadro visivo e concettuale del racconto. Man mano che in coda all’automobile in fuga diretta a Sugarland si aggiungono esponenzialmente sempre più auto della polizia (che passano paradossalmente dall’essere inseguitrici ad accompagnatrici), la macchina da presa ci mostra questo 'treno' di luci e di macchine in modo assai suggestivo, rovesciando il cliché dell’inseguimento multiplo in una sorta di parodia e quindi ribaltando anche il rapporto di forza tra l’uno e i molti, dove le auto della polizia, tutte uguali, appaiono come un unico grande nemico della felicità della coppia, mentre la vettura dei protagonisti è in realtà il fulcro del sostegno popolare. La trasformazione della fuga in un evento mediatico fu proprio uno degli elementi che colpirono il giovane Steven quando ne lesse sui giornali nel 1969: interessato all’impatto dei mezzi di comunicazione di massa sulle folle, il regista prese a pretesto la vicenda dei coniugi Dent per mettere in luce da un lato la capacità pervasiva dei media e dall’altro la doppia predisposizione dell’individuo sociale a prendere le parti del più debole e ad eleggerlo a proprio eroe.

Sugarland Express compie cinquant’anni, ma la ragione per cui merita il restauro 4K supervisionato dallo stesso Spielberg che la Universal Pictures ha portato a termine nel 2024 è il suo essere uno dei primi tasselli di una lunga e ininterrotta dichiarazione d’amore per il cinema che Spielberg sta fissando nei suoi film da decenni, con continui rimandi e approfondimenti tra le sue opere che sempre più si parlano e si completano. Qualora non bastassero le tematiche, i ritratti dei personaggi, la magnifica colonna sonora di John Williams, la bellezza delle immagini e le emozioni che suscitano, sarebbe sufficiente una sola scena a rivalutare completamente questo film mai troppo considerato: Clovis e Lou Jean, dal camper dove si trovano, guardano Willie il Coyote proiettato sullo schermo di un drive-in; lui inizia a (ri)produrre con la voce suoni e rumori del cartoon per aggiungere il suono alle immagini mute; lei ride; le espressioni dei loro volti, catturati e divertiti, si sovrappongono al riflesso di ciò che vedono. Come in The Fabelmans, poesia dell’ordinario e poesia dello straordinario si fondono. Pura magia, puro cinema.