Tra gli sceneggiatori che nel secondo dopoguerra hanno dato vita al cinema neorealista e traghettato il cinema italiano verso la fortunata stagione della commedia all’italiana troviamo, accanto a Sergio Amidei, Cesare Zavattini e altri, Suso Cecchi d’Amico. Non solo una scrittrice, ma una figura in grado di supportare umanamente e artisticamente il regista con cui si trovava a lavorare. Data l’impossibilità di offrire un ritratto completo di questa autrice in così poche righe, può essere utile ripercorrere alcuni dei suoi film più interessanti.

Suso Cecchi d’Amico iniziò a scrivere per il cinema grazie a Carlo Ponti, che la coinvolse nella scrittura di un film intitolato Avatar. Il film, scritto da Cecchi d’Amico insieme a Alberto Moravia, Ennio Flaiano e Renato Castellani, non venne mai realizzato. Il primo film che invece vide la luce fu Mio figlio professore (1946) di Renato Castellani, a cui seguirono collaborazioni con Luigi Zampa, Alberto Lattuada e Luigi Comencini, prima di arrivare a Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica.

Caterina d’Amico ricorda che sua madre era solita ripetere che per scrivere una sceneggiatura bisogna essere in due: il primo scrive, il secondo è il “primo spettatore” del film. Suso Cecchi d’Amico era consapevole della natura estemporanea della sceneggiatura; sapeva bene che si tratta di uno strumento funzionale al vero prodotto finale, il film. La sua era una scrittura certosina, che si basava su una struttura solida che lei stessa aveva perfezionato nel corso degli anni.

Prese parte al tramonto del neorealismo, scrivendo un film come Bellissima (1951) di Luchino Visconti, considerato dalla storiografia l’epilogo del periodo neorealista del regista, che già con il successivo Senso (1954) avrebbe intrapreso una strada completamente diversa. Bellissima è una critica grottesca al mondo dello spettacolo, ma anche la denuncia di una figura materna capace di danneggiare la propria figlia pur di sfuggire dalla miseria.

Un anno dopo esce Processo alla città di Luigi Zampa: dopo In nome della legge (1949) di Pietro Germi, il cinema italiano torna a raccontare la mafia. Il film di Zampa dipinge la camorra come un “sistema”, radicato nella cultura, in grado di inghiottire il singolo che vi si oppone. Inizia come un giallo, ma si trasforma poi in un’inchiesta che, come suggerisce il titolo, coinvolge l’intera Napoli. Secondo Suso Cecchi d’Amico, era la migliore sceneggiatura che avesse mai scritto; è infatti innegabile che la scrittura sia la prima delle tante qualità di questo film.

La durezza del dopoguerra è il tema che la sceneggiatrice affronta più spesso in questo periodo. Con I soliti ignoti (1958) dà inizio – insieme a Mario Monicelli e Age & Scarpelli – alla commedia all’italiana, e un anno dopo scrive in solitaria un racconto tragico ambientato in un carcere femminile, Nella città l’inferno di Renato Castellani. Si tratta di un film molto duro, che alterna momenti comici a sequenze fortemente drammatiche. Le protagoniste sono Anna Magnani e Giulietta Masina, quest’ultima fresca del successo di Le notti di Cabiria (1957) di Fellini. Il film affronta il dramma della prigione ponendo i suoi personaggi di fronte alla difficoltà di nutrire la speranza per un futuro migliore, speranza che, però, finisce per trasformarsi in una condanna ancora maggiore. Anna Magnani regala uno dei suoi personaggi più affascinanti, figura che con il corpo e la voce veicola la sofferenza del racconto.

Di tutt’altro genere è La contessa azzurra (1960) di Claudio Gora, ambientato a Napoli e frutto di una sceneggiatura a cui partecipa anche Titina De Filippo. Commedia in costume ambientata nel mondo dello spettacolo, mette alla berlina l’idea romantica dell’artista e omaggia in più occasioni il cinema muto italiano. Suso Cecchi d’Amico si rivelò un valore aggiunto per il regista Gora: “Quello che io cercai di fare, siccome il film era ambientato in un’epoca che conosco abbastanza bene, fu di dare a Gora delle opportunità, delle scuse per fare dei pezzetti di cinema, per girare dei pezzi dove si vedeva che era un regista che sapeva fare il suo mestiere” (da L’avventura storia del cinema italiano. Da Ladri di biciclette a La grande guerra, volume edito dalla Cineteca di Bologna). In ogni suo film Suso Cecchi d’Amico era interessata a valorizzare il lavoro del regista più di ogni altra cosa, lavorava a una scrittura che potesse tradursi senza difficoltà in immagini: per citare ancora Caterina d’Amico, Suso parlava di “scrivere con gli occhi”.

Fu partecipe dei primi successi di alcuni dei più grandi registi italiani del secondo Novecento, tra cui Francesco Rosi, Antonio Pietrangeli e Franco Zeffirelli; ma è stata anche insegnante di alcuni protagonisti del cinema italiano contemporaneo, come Cristina Comencini, Ivan Cotroneo e Francesco Bruni. Sono pochi gli autori che come lei rappresentano un ponte tra passato e presente. Ancora oggi, il nome di Suso Cecchi d’Amico ha un valore inestimabile per lo studio e la divulgazione del cinema italiano.