È il 1977, la cupa Berlino, oltre alla sua complessa condizione politica, si trova a fronteggiare un gruppo di fattucchiere di Barabba, e non di Belzebù. Queste celano le loro scocciature dietro i rapimenti, i terroristi ed i gruppi di estremisti. La giovane Susie, scappata dal clan amish in cui è nata, si trasferisce in Germania per entrare nella prestigiosa accademia di danza Markos. Incappa però in una congrega (collettivo) tutta al femminile, dove i ruoli di leadership stanno collassando. L’accademia è rigida e immobile, una fortezza che pare l’epicentro della città ed al cui interno si celano terrori e inquietudini.
Suspiria si radica su di una trama fitta che attinge dalla continua impressione di immagini, suoni, rumori e colori ovvero il film di Dario Argento e, per esserne omaggio, se ne discosta sanguinando. Infatti Luca Guadagnino sceglie di costruire attorno a sé una cinta muraria politica che, in un qualche modo, sia riflesso e motivazione delle azioni perpetuate sia dalle sue Madri, sia da quelle di Argento.
Le belle immagini di Suspiria di Guadagnino sono frutto ipnotico, come in Chiamami col tuo nome, del lavoro con il direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom, ma questa perfezione cattura solo momentaneamente l’occhio dello spettatore che, come un’amante, è tradito dal ritmo dilatato che inevitabilmente sfocia in risa non graditi e si avvia verso l’oblio della memoria. Quindi un duplice inganno: quello preparato dalle madri a Susie (carente di armonia a causa del volto inespressivo di Dakota Johnson) e quello compiuto nei confronti dello spettatore.
La sequenza più potente è in assoluto quella della danza in cui i corpi lontani, ma unicum, di Susie e Olga si battono per la sopravvivenza, sotto lo sguardo delle malefiche, come se fossero in un utero materno fino alla vittoria di chi ingloba in sé ciò che era l’altra. Un evento di possessione, dolore carnale punitivo che, dilungandosi non raggiunge la forza necessaria per estendendersi al di fuori dei suoi personaggi, rimanendo così fossilizzato all’interno del quadro.
Il rosso vivido che schizza sulle pareti, i corpi nudi che si contorcono e la magia rimangono congelati come in una Polaroid. La ferocia di Quentin Tarantino non si addice a Guadagnino perché non ne mostra la visceralità intrinseca, bensì si limita ad esporre le viscere. Gli effetti speciali e la colonna sonora di Thom Yorke non aiutano a sorreggere il film. Così come né l’androgina bellezza dell’attrice feticcio Tilda Swinton (madre e amatrice solinga), né le bellezze di un cast che attinge, anche nello stile, da Fassbinder, non sono riusciti a liberare Guadagnino dalle catene della sua mente. Il regista quindi non riesce a far sua Suspiria, si attornia di madri-padrone costruendo un’immensa tela, apparentemente bellissima, senza poi riuscire a districarsene, forse anche a causa della sceneggiatura di David Kajganich.